Varesina, scrittrice ed educatrice nota in tutta Italia, Felicita Morandi (1827-1906) concluse i suoi giorni nella ristrettezza economica. Per colpa di un ministro disonesto le fu tolta la già misera pensione. Rievocò la sua vita in un diario fatto pubblicare postumo dalla devota amica e allieva Erminia Prugg. È quest’ultima, si immagina qui, la voce narrante del racconto.
Il cuore dell’inverno sta portando giorni algidi. A me pare di non ricordare un gennaio tanto freddo. La sera, vicino al camino, consulto le carte di Felicita. Sfrutto le ultime braci per rileggere il suo diario, godo le ore del silenzio per lavorare in tranquillità. Felicita mi ha lasciato ormai da tre settimane, ma la sua presenza continua a farsi sentire. Sono molte le persone che arrivano qui, vogliono sapere e desiderano comunicarmi il loro dolore. Ci sono ragazze che lei ha aiutato e oggi sono sarte, modiste, domestiche.
Qualcuna ė riuscita a realizzare il proposito di diventare a sua volta maestra. E qualche altra, fortunatissima, è entrata come moglie nelle famiglie borghesi di Milano o della provincia. È venuta l’altro giorno una bellissima sposa, in abiti eleganti, teneva per mano una bambina dai tratti raffinati e dai grandi occhi azzurri, di nome Felicita. Mi sono detta: se lei fosse ancora qui, vedrebbe il senso e la riconoscenza di quanto seminato dalla sua fragile persona e dalla sua vita generosa.
Negli ultimi tempi della nostra esistenza in comune ho spesso nascosto a Felicita le difficoltà della sua situazione economica, arrangiandomi con la spesa come meglio potevo, scegliendo cibi semplici e poco costosi, cercando di far rendere il più possibile le poche sostanze che erano ancora in nostro possesso. La tosse la scuoteva e gli occhi perdevano pian piano la loro vivida luce. Cercavo di coprirla e di tenerle la stanza calda. Ma un inverno tanto freddo non mi pareva di averlo mai visto e la legna scendeva di livello ogni giorno. Prima di Natale arrivò quella lettera. Non fu possibile non parlargliene. La già pur minima pensione che in precedenza le era stata accordata le veniva ingiustamente tolta, perché “non conforme alle regole contabili”. Una volta di più Felicita scoprì l’ingiustizia, vide ogni suo sentimento calpestato, annullata un’intera vita di dedizione e di lotta, di sacrificio per gli altri. Prendiamone atto. Sono state le “regole contabili” a uccidere la mia amica e maestra Felicita Morandi, la benemerita scrittrice ed educatrice conosciuta in tutta l’Italia.
L’altra sera ho trovato nel diario una frase che mi ha spiegato tanto di lei: “Sì amai, ma nessuno lo seppe. Mi studiai di dimostrare freddezza, indifferenza verso chi, protestandomi affezione profonda, mi offriva una vita serena e agiata. Per il mio rifiuto fui creduta senza cuore. Ma io dovevo seguire il mio destino“. La mia cara amica neppure a me ha mai confidato niente del suo cuore. Ma certo non ha potuto coltivare gli affetti che avrebbe desiderato e meritato, lei che ha cresciuto i figli degli altri, che ha vegliato sino alla fine il corpo di una bambina ammalata di tifo, minando a sua volta la salute.
Anche nel suo cuore, dunque, ora lo so con certezza, entrò l’amore per un uomo. E Felicita ne ha portato l’immagine dentro di sé per una vita, senza farlo sapere. Del resto lei assecondò sempre, in ogni momento della sua vita, la voce del cuore. Lo dice anche il suo gentile e fervido poetare, che tanto piacque all’amico Arnaldo Fusinato.
Quando guardavo le sue esili spalle di donna nell’abito attillato, mi chiedevo come quella figura minuta avesse potuto reggere insieme tanto carico di amore. É ancora il suo diario a mostrarmi tutta la forza di Felicita: aiutò dapprima i parenti e il padre cieco, andando come istitutrice in una famiglia che la ricompensava con l’astio e l’intolleranza di una padrona di casa incapace di volere bene. Fu infermiera pietosa verso i feriti – anche nemici- quando Varese subì, nel ’48, l’assalto delle truppe di Radetzky. Infine, la sua competenza di educatrice e pedagoga la condusse per i riformatori d’Italia. E mentre leggo delle condizioni che le capitò di trovare negli istituti in cui veniva chiamata, inorridisco scoprendo in quali disagevoli situazioni le fu chiesto di operare. Ancora di più mi meraviglio nel costatare quanto è stato fatto da lei. Mi sorprende la forza di chi seguitava a cercare diletto nel bello, nella poesia, nella scrittura -producendo tante opere narrative e pedagogiche- e intanto era costretta a confrontarsi con realtà miserabili e indecorose: ragazze ridotte all’umiliazione, a un vivere vergognoso e ozioso, in mezzo alla sporcizia e all’indifferenza di chi avrebbe dovuto provvedere, segregate in camerate indecorose, che la mia cara amica descrisse con l’attenzione di chi fruga nella vita per capire e porre rimedio. Felicita fu chiamata a Parma e a Piacenza, a Milano e a Roma. Ricoprì il massimo degli incarichi: ispettrice degli educatori femminili in alta Italia. Le venne assegnata anche la medaglia d’oro. I riconoscimenti, certo, non sono mancati.
Ma questo non ha impedito che la sua vita, dopo tanto operare e lavorare, finisse nell’angustia della miseria. È tutto qui.
Grazie al suo diario scopro la chiave di una vicenda che solo ora mi è chiara. Il pudore e la dignità di Felicita le impedivano di smascherare le malefatte di un ministro sensibile alle raccomandazioni e più proclive all’ingiustizia che a riconoscere i diritti degli onesti. Per colpa di lui, che dovendo far posto a una sua protetta la consigliò di lasciare anzitempo l’incarico, le fu data quella pensione miserabile, poi del tutto revocata.
Felicita, nella sua solitaria e pur non facile vita, è stata comunque donna completa e vera. È stata, oltre che educatrice, scrittrice, e dunque una voce per tante voci: voce calda di intelligenza, di onestà, di coraggio.
Con la sua penna ha insegnato la vita a tante giovani, istruendole al bene, ha tratto dalle lacerazioni della sua anima, attraverso un lavoro a contatto con la vita e con le miserie, quella compostezza di sentimenti e di condotta che sarà d’esempio per sempre.
Trasmetteva la sua parola quasi con vergognoso ritegno, nelle ore strappate al sonno o nelle brevi pause spesso interrotte da chi cercava il suo aiuto. Soprattutto all’inizio della sua attività dimostrava un pudore alquanto schivo, temeva che l’amore per la scrittura potesse essere interpretato alla stregua di un’ infatuazione. Come una Austen, che non vuole buttare in pasto a tutti la sua passione di scrittrice, che nasconde dietro la carta assorbente quell’intenso lavorio di testa e di mani.
È ora compito delle amiche da lei indicate, e dunque anche mio, provvedere alla pubblicazione dei suoi ricordi. Le pagine del diario sono ormai ingiallite dal tempo, parlano di cose e di persone che non sono più: rivelano a tratti l’impronta della mano stanca, che s’abbandona per la fatica fisica o l’amarezza del ricordo.
Abbiamo trovato tra le carte sparse di Felicita altri documenti: lettere di illustri, ricordi del suo impegno verso la patria, echi di un passato che non è spento.
Ma ci è sembrato giusto non riproporli. È triste, in un cassetto ormai chiuso, che odora ancora di sandalo e di rosa, lasciar penetrare l’invadente soffio dell’aria e andare a mettere le mani là dove gli altri hanno messo il cuore.
Il nostro sentimento di amicizia verso di lei ci suggerisce di lasciare che sia piuttosto Felicita a raccontarsi, con il pudore delle sue parole.
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