Belle le primarie del centrosinistra a Milano. Serie, combattute, partecipate da 61.000 elettori che sono una cifra cospicua. Il risultato in favore di Giuseppe Sala, netto ma sotto il 50%, lo mette nella necessità di tutelare l’unità di tutti i canditati, dei partiti, delle forze civiche. Più problematiche risulteranno a Roma e Napoli, per fare solo due esempi, a dimostrazione che lo strumento è valido ma la differenza la fanno le donne e gli uomini, il contesto politico, la vitalità della società.
Alcune costanti delle primarie sono ormai chiare. Per avere successo non debbono trasformarsi in congressi di partito ma essere aperte a rappresentanti di altre esperienze sociali, civili, politiche. Se si vuole costituire una coalizione elettorale, meglio che tutte le forze coalizzate partecipino subito alla gara nel modo desiderato. Indispensabile che i candidati espongano le loro idee e i loro progetti affinché l’elettore non scelga solo la persona ma anche, almeno in buona parte, l’indirizzo politico-amministrativo.
C’è ancora chi afferma che era preferibile il tempo in cui queste scelte erano in capo alle direzioni dei partiti. Ma le primarie sono proprio la conseguenza della crisi dei partiti, almeno dei partiti che sono condotti nel modo più democratico possibile. I partiti del passato non torneranno più, e non solo in Italia. Basti vedere, sempre nel campo del centrosinistra, l’involuzione della socialdemocrazia europea, oggi una forza pallida rispetto a quella di un tempo.
Nei due decenni scorsi, in gran parte dominati dalla figura di Berlusconi, le forze di centrosinistra e successivamente il partito maggioritario (Pd) hanno ripreso forza e coesione con l’ausilio delle primarie. Su scala nazionale furono introdotte per la prima volta nel 2005 (elezioni nell’anno successivo) per confermare la candidatura, largamente scontata, di Romano Prodi che sarebbe stato travolto, due anni dopo, dalle contraddizioni e dalle risse di una coalizione (l’Unione) che comprendeva, oltre all’Ulivo, formazioni inconciliabili di estrema sinistra e di “estremo” centro (Clemente Mastella e Lamberto Dini).
Secondo alcuni politologi le primarie andrebbero introdotte per legge sia per quanto riguarda il candidato leader del governo nazionale sia per le grandi Istituzioni territoriali. Una tesi che ha un suo fondamento ma i tempi non sono affatto maturi. Una maggioranza parlamentare non può da sola imporre questo schema di gioco a tutti i partiti che, per metà, non lo accettano e non lo praticano.
Anche nel campo del centrosinistra vi sono però errori da correggere e limiti da superare. Serve una regola generale che lasci spazi di scelta ben predeterminati alle dirigenze locali. Nel caso dei sindaci uscenti, se i risultati sono stati buoni, le primarie sono inutili e perfino dannose. Necessario soprattutto un albo dei votanti delle primarie al quale ci si possa registrare volta per volta ma con tempi e modalità precise.
È il modo più sicuro per evitare quanto successo per la Regione Liguria un anno fa con le polemiche che portarono all’abbandono di Cofferati (presunte scorrettezze) e al successo del centrodestra di Giovanni Toti. Restringendo l’osservazione alla Lombardia (quasi un quarto del Paese per tanti aspetti), il Pd e i suoi alleati hanno conquistato quasi tutti i grandi comuni e lo strumento delle primarie è stato spesso decisivo. Vedremo a giugno se sarà stato vero anche a Varese per il necessario ricambio di amministratori e di idee.
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