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Cultura

UN FILOSOFO AL POTERE

LIVIO GHIRINGHELLI - 05/02/2016

Marco_AurelioIl sogno di Platone, il progetto utopico di una Repubblica retta da filosofi, parve realizzarsi per le strane evoluzioni della storia a distanza di mezzo millennio con l’ascesa al trono di Marco Aurelio. Non si trattava più peraltro di un piccolo laboratorio politico come nel caso di Atene o di Siracusa, ma di un impero sterminato esteso dalla Bretagna all’Eufrate ancora nel rigoglio del suo splendore pur minacciato dai barbari, da ribellioni, pestilenze e carestie.

Più propriamente si dovrebbe parlare non di un filosofo inteso alla speculazione astratta, a comporre un sistema, quanto di un saggio che professa dei principi come disciplina di vita (filosofia come arte del vivere). Virtus in usu sui posita est, deve essere messa tutta in pratica. Si tratta di un agire in tutto conforme alla natura razionale. Questo il valore ed il senso dell’unica opera redatta, i Pensieri (Tà eis heautón – A se stesso), afferenti all’ultimo decennio di regno, mentre si trovava in armi lungo i confini settentrionali dell’Impero.

È un colloquio con se stesso, meditazioni che uno storico illustre del Cristianesimo come Ernest Renan ha potuto definire un Vangelo eterno. Per Marco Aurelio l’uomo deve porre se stesso come fine delle proprie opere, erigere una cittadella libera da passioni come un rifugio, compiere unicamente quelle azioni che siano finalizzate al benessere dell’umanità, poiché tutti siamo nati per la cooperazione (agire gli uni contro gli altri è un atteggiamento contro natura), pronti a cambiare idea se c’è qualcuno capace di correggerci. Facciamo parte di un organismo cosmico illuminato dal Logos, ne siamo scintille che dopo la morte vi restano sotto altra forma. Soprattutto famosa è la massima: non vivere come se tu avessi ancora diecimila anni da vivere; finché vivi, finché ti è possibile, diventa buono.

Il tema della morte è come un basso continuo dei Pensieri. Ciascuna cosa, non appena è vista, già è trascinata via. La morte ci fa dono di una straordinaria libertà dal mondo, ci toglie l’attrazione verso tutto ciò che è vano e ci impedisce di soffrire più del dovuto, eliminando ogni ragione di drammaticità. È un elemento di natura, spezza la catena che lega il passato al futuro: l’uomo è affrancato dall’abisso del tempo, che è scorso prima e di quello che si proietta dopo di lui: ciò che uno non ha, come potrebbe essergli sottratto? Non resta che svolgere al meglio l’opera in corso e apprezzarla. Il presente è l’unico teatro d’azione del saggio.

Certo non vale il richiamo al piacere (il carpe diem oraziano), quanto l’invito al distacco, al disincanto, usando gli ostacoli che il destino oppone per sviluppare la virtù. Non si tratta solo di accettare quello che comunque avverrebbe, quanto di farsene una ragione; rinunciare alla propria volontà per volere quello che vuole il destino significa per l’uomo sintonizzarsi colla ragione cosmica (Logos), identificarsi col Logos universale ci permette di appropriarci di tutta la Sua forza, di tutta la Sua libertà. C’è una solidarietà armonica degli eventi, per cui è necessario mantenere un perfetto parallelismo tra la sfera cosmica e quella umana.

Per Marco Aurelio il soggetto è comunque fatto indipendente dal meccanismo cosmico, la necessità naturale non ha effetto sulla coscienza dal punto di vista della libertà. La trattazione dell’assenso non porta per lui alla conoscenza del mondo, ma a uno stimolo interiore che rende l’io sempre più libero. Tre sono le componenti da cui siamo formati: corpo, soffio (spirito, principio unificatore del corpo), mente; solo la terza però è sovranamente nostra: l’intelletto (pneuma, nous), funzione pensante e soprattutto sede dell’io : qui si gioca il ruolo di guida morale, scegliendo se stessi e non le cose, gli oggetti esterni. L’intelletto assume le funzioni dell’egemonico.

Per il proprio io Marco Aurelio propone la denominazione di demone, introducendo l’idea della sacralità dell’anima umana. Non bisogna mai farsi catturare dalla realtà, ma stare sempre sopra di essa e affidarsi alle intuitive regole di vita piuttosto che ai dogmi.

Nato il 26 aprile del 121 d.C. da famiglia patrizia originaria della Betica Marco Aurelio Augusto Antonino eredita dal padre Marco Annio Vero il riserbo e la fermezza, dalla madre Lucilla il sentimento religioso, la generosità, la semplicità di vita. Assume la toga virilis nel 136, è questore nel 139 e nel 139/140 si dota dell’imperium proconsulare maius, per divenire poi console nel 140 con Antonino Pio. Nel 145 è console per la seconda volta. Ha come punto essenziale di riferimento le Diatribe di Epitteto. Gli nascono 14 figli (parecchi gli muoiono). Il 1° dicembre del 147 gli è conferita la tribunicia potestas. Nel 161 alla morte di Antonino Pio gli succede come imperatore e diventa anche Pontifex maximus. Vuole però generosamente associarsi nella carica suprema il fratello di adozione Lucio. Non si affida alle condizioni di nascita nell’attribuire le cariche, estendendole anche ai provinciali e badando ai meriti personali; è mosso da profondi interessi umanitari, rende più umano il trattamento degli schiavi, favorisce l’istruzione dei giovani. Nel 169 è impegnato nella campagna contro i Quadi e i Marcomanni, popolazioni germaniche, doma poi una rivolta militare in Siria, rintuzza gli attacchi dei Sarmati.

Tra il 175 e il 176, mentre è in visita alle province orientali, gli muore la moglie Faustina in circostanze poco chiare. Il 27 novembre del 176 decide di associare il figlio Commodo. Nel 178/179 opera ancora contro le tribù transdanubiane, sinché muore per peste il 17 marzo del 180.

Non si può però tacere nell’esaminare figura e comportamento di Marco Aurelio che si avverte un certo dualismo tra il dire e il fare per quanto riguarda questo principe tanto esaltato. Dione Cassio (II-III secolo d.C.) nella sua Storia romana in 80 libri lo considera il migliore nel rapporto con i sudditi, l’Historia Augusta, risalente al IV secolo ne celebra la clemenza. Ma nonostante i pensieri da lui chiaramente formulati sulla fratellanza umana (naturalità dell’amore, l’uomo animale sociale) stupisce l’atteggiamento tenuto nel confronto dei cristiani; inasprì contro di loro la persecuzione, sì da imporre con decreti la ricerca d’ufficio ed aprendo così la caccia.

Certo la persecuzione dovette apparirgli urgente soprattutto contro i montanisti per il loro estremismo antisociale. I cristiani gli apparivano come fanatici alieni refrattari a ogni discussione. Ma sconcertano pure parecchi errori di valutazione nella scelta delle persone (specialmente nel caso di Commodo), la trasformazione dell’annona militare da tassa straordinaria in più gravosa tassa ordinaria, la sottovalutazione dei principi che sovrintendono a una corretta gestione delle entrate dello Stato, il contrasto tra il cupo pessimismo di certe riflessioni e la fede incrollabile nella Provvidenza universale (pessimismo esistenziale-ottimismo teoretico). Dato questo chiaroscuro è forse il caso di un’ulteriore verifica, apprezzando, oltre certe cadute e contraddizioni, la costanza della tensione nel suo comportamento ascetico di lotta contro il male.

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