Il gelido vento del Nord che ha soffiato in questi giorni a Amsterdam ha provocato danni forse irreparabili alla comune casa europea.
I quattro pilastri su cui si fonda(va?) la costruzione europea ispirata da Jean Monnet, realizzata da Robert Schuman, rinforzata da Alcide de Gasperi, divenuta sprone per la riconciliazione da parte di Adenauer erano quattro: assicurare la pace attraverso la prosperità nello spirito di solidarietà in una comunità sovranazionale.
La pace non solo è stata assicurata, ma è stata rafforzata (si pensi alla fine della guerra tra Regno Unito e Irlanda o alla caduta del muro di Berlino!), ma oggi crepita sotto gli attacchi del terrorismo che ha fatto rinascere il nazionalismo, il populismo e, Dio non voglia!, riflussi di razzismo. La prosperità economica,creata attraverso un mercato unico, una moneta unica, la libera circolazione di persone, merci e capitali si è scemata sotto i colpi della crisi e grazie all’arbitrio dei mercati finanziari. La solidarietà è stata sostituita dalla miopia di quei governi che non sanno presiedere ad un fenomeno epocale quale quello della migrazione. La sovranazionalità, ormai, è divenuta inter-governalità attraverso la quale ogni governo cerca di soddisfare i propri interessi.
La crisi rimonta al 1992, a Maastricht, e all’autentica virata che ne conseguì nel processo d’integrazione voluto da Jacques Delors: le competenze non furono trasferite alle istituzioni, ma affidate ad un ipotetico coordinamento fra i governi nazionali, dimenticando (di proposito?) che quest’ultimi sono gelosi delle loro prerogative.
Il resto è sotto i nostri occhi: per fermare l’ondata di profughi che cercano rifugio in Europa non si è trovato di meglio che innalzare frontiere e chiuderle per un periodo di due anni con la conseguenza di sospendere il trattato di Schengen e,conseguentemente, con gravi ripercussioni sulla libera circolazione.
Anche l’Italia sta perdendo la sua tradizionale anima europeista. È il pericolo più grande che stiamo correndo: non temiamo, infatti, tanto la disgregazione esterna, quanto la disintegrazione morale e valoriale all’interno dei paesi. Ci sorprende che a diffondere questo spirito anti-europeista siano parti di quelle forze che hanno visto rifiorire la loro identità e cultura locali, che erano scomparse nelle omologazioni nazionali. Pensiamo ai cechi e agli slovacchi, ai bretoni, agli alsaziani,ai corsi, ai fiamminghi e ai valloni, ai gallesi e scozzesi, ai baschi e ai catalani.
L’Europa non è Bruxelles. Siamo noi. Ai tempi in cui l’Europa era un sogno,un progetto, un ideale i politici nazionali andavano a Bruxelles per portare ciascuno un mattone per la costruzione dell’Europa. Ora vanno per portare a casa un pezzo di quei muri. Una volta si andava per “dare”, ora si va con la pretesa di “avere”. Una volta andavano portandosi dietro l’orgoglio di un paese, ora vanno con “il cappello in mano”. Una volta, dialogavano fino a notte profonda per trovare un accordo, oggi battono i pugni per avere tutto e subito.
Per questo non ci piacciono le smargiassate del nostro presidente del Consiglio che alterna proclami di fede europeista a strali contro la burocrazia di Bruxelles e contro la cancelliera Merkel, dimostrando cosi’ di ricercare dei nemici ai quali addossare tutte le colpe della mancata crescita del paese.
Quando il leader del PD accusa l’Europa di essere una massa di burocrati, dimentica che le regole in un’unione vanno rispettate (anche quelle relative all’abbattimento fino al 60% del debito pubblico!). Il vero statista non urla, ma mantiene i conflitti sul piano delle idee, senza trasformarli in una lotta di interessi contrapposti. La tendenza all’autoaffermazione, giusto desiderio di ogni politico, emerge anche da comportamenti e da un linguaggio moderato e controllato. La politica deve confrontarsi sulle idee e non sulla demonizzazione dell’altro, soprattutto in Europa in cui il senso dell’equilibrio nordico deve coesistere con l’irruenza mediterranea.
Il nostro giovane presidente si vanta di aver ottenuto, grazie alla presidenza del semestre italiano, maggiore “flessibilità”, ma è stato subito sbugiardato dal Presidente Juncker. Sono stati ben altri i politici italiani che hanno segnato la storia dell’Unione con le loro presidenze: il suffragio diretto e universale per le elezioni dei deputati europei, la modifica dei Trattati ( Milano, 1985, presidente Craxi), l’ avvio per la conferenza di Maastricht (Roma, 1990, presidente Andreotti).
Questo non significa che l’Europa non abbia limiti: occorre lavorare per correggerli.
Anche noi siamo convinti che le istituzioni europee accordino uno spazio esorbitante alla burocrazia a detrimento della politica. Ma è quest’ultima che negli ultimi due decenni non è riuscita a riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di progetti che non siano stati quelli esclusivamente economici.
Non solo: è la politica che ha lasciato crescere i conflitti ed è la politica che deve combattere
l’eccesso di rigidismo burocratico. Purtroppo, non vediamo davanti a noi uomini che abbiano l’intuizione e la perseveranza di Monnet, la visione ampia e la fede profonda di Schuman, la dirittura morale, l’onestà e il vigore di Adenauer, l’impegno e il sacrificio di De Gasperi., la convinzione, la creatività e il senso di solidarietà di Delors.
Non basterà che l’Italia si accinga a restaurare il carcere di Ventotene dove Spinelli, forte idealista e federalista, e Rossi, incarcerati dal fascismo, scrissero il famoso “manifesto”. Occorre che inizi una vera “educazione all’Europa” per far conoscere i motivi della sua origine, della sua storia, del suo funzionamento, della sua cultura una e molteplice, della sua medesima comunità di destini. Occorrono, cioè, conoscenza e coscienza, cioè riconoscimento dei propri limiti e degli errori del passato.
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