San Francesco di Sales diffondeva il Vangelo chiacchierando e scrivendo. Girava per borghi e case sperdute, e quando non gli aprivano la porta, v’infilava sotto un pezzo di carta. Oppure affiggeva un manifesto sul muro. Poche parole per portare quella del Signore, nella speranza che il destinatario fosse in grado di leggerle. E dunque d’accoglierla. L’han fatto santo per questo: la capacità e la voglia di divulgare il sacro. Un missionario della notizia divina, ma in fondo anche d’altro: trasmettere la conoscenza, mettere in circolo un’idea (anche più d’una idea), informare il prossimo come se stessi. Se uno sa, perché non condividere il dono del sapere?
Dal 1923 San Francesco è il patrono dei giornalisti, e lo si festeggia ogni anno nel declinare di gennaio. Li guida e protegge, ma i giornalisti sembrano all’immaginario popolare spesso riottosi a farsi guidare e proteggere da un simile virtuoso. Li si accusa di scantonare in vie traverse dalla principale, e di preferire il riparo sotto mantelli più secolari. Di cercare rifugi di comodo. Di evocare prediche assai poco beatificanti. Di profittare della credulità di massa (una disponibile credulità). I giornalisti non godono, insomma, di buona stampa presso molti di coloro che li leggono. Li sentono. Li vedono. Anche di coloro che non li leggono né sentono né vedono.
È un meritato demerito? In alcuni casi sì. Perché esiste un giornalismo asservito oppure scandalistico o ancora – a seconda dei casi e delle circostanze – partigiano, conformista, inginocchiato, pecorone. E naturalmente superficiale, disattento, facilista e familista. Ma c’è anche un diverso giornalismo. Di frontiera e di battaglia. La vulgata prevalente, intrisa del suo negazionismo verso un report libero sui fatti della quotidianità, concede scarso o nessun credito all’esistenza d’una tale vocazione giornalistica. La sospetta di tutelare comunque interessi grevi, di obbedire a una causa qualunque pur se misteriosa, di manipolare le notizie per il mezzo dei commenti. Ma è la vulgata a essere in errore, non il giornalismo. Che, nella sua maggioritaria espressione, avrà pure tanti difetti, non però la colpa della dipendenza di giudizio. Della rinunzia a ricercare. Della pavidità nella narrazione della vita collettiva, delle vite individuali.
Talvolta è il caso di ricordarlo, trattandosi d’una verità frequentemente dimenticata. O magari nota e però, essa sì, oggetto di manipolazione. Può infatti convenire a molte categorie che non venga mai spenta la fiammella del discredito generalizzato verso la categoria ad alta influenza sociale dei giornalisti: quando si obietta in via pregiudiziale alla sua serietà, s’induce a obiettare al suo lavoro. Ai suoi esiti. Alle sue denunzie. È come dire: non diamo mai retta sino in fondo ai giornalisti, perché i giornalisti sono i primi a non darsi la retta via. Ma se non ci fossero i giornalisti, se ci mancasse la grande e la piccola stampa, se si allentasse la militanza del giornalismo nel campo della libertà, quanti prigionieri avrebbe fatto (farebbe ancora) l’esercito sfrontato e protervo del potere?
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