Ogni volta che si riapre il capitolo dell’omicidio di Lidia Macchi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di estremamente misterioso, ad un delitto che pare non poter trovare una risposta adeguata in nessuna delle piste di indagine seguite dagli inquirenti. Anche il recente arresto di una persona ritenuta il possibile assassino non fa che riaprire dubbi e sospetti, riproponendo due fattori che continuamente sono ritornati in questi anni e che la cronaca ha sempre riproposto: da una parte la crudeltà e l’efferatezza con cui l’omicidio venne eseguito, in un contesto quasi di ritualità macabra che lo differenzia da altre forme di femminicidio cui ci ha abituato la cronaca degli ultimi anni; dall’altra una serie di circostanze che ha continuamente alimentato il sospetto di un rapporto stretto tra la morte di Lidia e la sua appartenenza ad ambienti educativi da lei frequentati e determinanti per la sua personalità.
Ciò si vede anche in questi giorni con il ritornare di emozioni e sospetti simili a quelli di allora. È ancora vivo il ricordo della partecipazione dell’intera città di Varese ai funerali celebrati nella basilica di San Vittore in una fredda e nevosa giornata di gennaio, e mentre la città piangeva straziata la morte di una ragazza come tante altre, uccisa con una ferocia ed una violenza inimmaginabili, fu quasi ovvio che il sentimento di strazio e di sgomento per quel delitto inducesse gli inquirenti ad accelerare le indagini, puntando soprattutto negli ambienti che le erano più vicini. Nasce forse da qui la scelta di cercare l’assassino nell’ambiente degli scouts o nei gruppi di Comunione e Liberazione cui la ragazza faceva riferimento, ma tale pista si è dimostrata troppo a senso unico: nata come un “teorema a tavolino” su cui ritagliare la conferma di prove obiettive, tale scelta si trasformò nell’accanimento contro la figura di un giovane sacerdote, indiziato del delitto senza prove veramente probanti, con il risultato che ne risultò coinvolta in qualche modo tutta la Chiesa di Varese ed in particolare il movimento di Comunione e Liberazione, che in quei giorni si sentirono più soffocati da sospetti insidiosi che capaci di offrire elementi per smontare accuse infondate.
Per quanto ricordo non ci fu nessun tentativo di coprire qualcuno o di nascondere qualcosa, ci fu semmai un’attenta analisi delle poche tracce esistenti per verificare l’effettiva innocenza del sacerdote indiziato, giungendo a ricostruire un semplice ma decisivo particolare che avrebbe potuto sciogliere anche il clima in cui la Procura svolgeva le sue indagini. Si tratta dell’interrogatorio di quattro preti e di un laico nella questura di Varese nella notte tra il 14 e 15 giugno 1987 in cui si cercò di far confessare ai testimoni convocati che non fosse vero che il giovane prete accusato avesse preso parte ad una riunione proprio nella serata dell’assassinio di Lidia, mentre tutti confermarono il contrario e cioè che il prete indiziato aveva partecipato a quell’incontro di lavoro e che per questo non poteva contemporaneamente essere presente sul luogo del delitto.
Oggi che il fascicolo di don Antonio Costabile è stato chiuso e il sacerdote completamente prosciolto da ogni accusa, posso dire con tranquillità che il laico interrogato quella notte in Questura ero io, che non c’entravo nulla con le indagini su Lidia Macchi (che peraltro non conoscevo neppure) e che non sarei in seguito nemmeno stato coinvolto nel processo data ogni mia estraneità ai fatti. Pur essendo totalmente all’oscuro di tutta la vicenda Macchi e pur non conoscendo la ragazza, ebbi però la strana e non prevista ventura di trovarmi, senza saperlo, al centro di una questione più grande di me perché fornivo di fatto un alibi certo che chiudeva la pista del prete-assassino.
Oggi mi sento perciò libero di poter dire qualcosa proprio perché totalmente estraneo alle indagini seguenti, ma umanamente colpito ancora dall’oggettiva gravità di questo delitto. Sconvolge la modalità dell’omicidio perché mette in luce le oscurità più profonde del cuore umano che perde ogni amore all’essere mostrando una totale assenza di rimorso; ma altrettanto lascia perplessi che si alimenti la convinzione che qualcuno abbia voluto insabbiare le indagini proprio dentro gli ambienti di appartenenza di Lidia. Il silenzio dei pregiudizi di sapere già tutto e la prudenza di osservare con attenzione, sia allora che oggi, aiuterebbero più del sensazionalismo a condurre delle indagini efficaci in tutte le direzioni. Anche oggi qualcuno parla di imbarazzo da parte degli ambienti cattolici che avrebbero portato (magari in buona fede) a delle coperture, ma se sto alla mia esperienza ci fu autentica e leale collaborazione, anche se i metodi di indagine a volte erano un po’ discutibili.
Oggi a trent’anni di distanza c’è anzitutto da fare memoria di una tragedia che ha colpito un’intera città con la violenza della morte, e cui la Chiesa, lungi dal difendersi, ha offerto la compagnia della consolazione. Il mistero di Lidia non è ancora risolto e forse oggi è proprio il tempo del silenzio dell’anima, perché, se è grande il desiderio che giustizia sia fatta, nulla potrà restituirci colei che della violenza è stata la vittima, per cui solo l’ascolto disarmato di Dio potrà donare consolazione e riconciliazione.
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