Se è vero, come è vero, che l’informazione è l’anima della società, allora bisogna riconoscere che ci troviamo di fronte ad un periodo difficile per l’una e per l’altra. Per l’informazione, stretta tra le potenzialità della rivoluzione tecnologica e il tramonto dei vecchi modelli fondati sulla carta stampata. Per la società, smarrita tra l’individualismo dei valori e lo smarrimento dei vecchi e ormai impraticabili modelli di sviluppo.
La crisi del giornalismo è nello stesso tempo causa ed effetto di questa realtà. Non solo si legge meno (le tirature dei quotidiani si sono quasi dimezzate rispetto all’inizio del secolo), ma soprattutto l’informazione ha perso credibilità, perché paradossalmente è diventata sempre più succube delle ideologie e dei poteri proprio nel momento in cui ideologie e poteri perdevano consistenza e capacità di azione.
Ma editori e giornalisti dovrebbero essere i primi a pronunciare il mea culpa. Per non aver capito in tempo la portata dei profondi cambiamenti resi possibili dai galoppanti progressi dell’informatica sposata alle telecomunicazioni. Per aver pensato di poter continuare a mungere le vacche grasse di un mercato che, nel secolo scorso, garantiva buone vendite e crescenti ricavi pubblicitari. Per aver continuato, insieme giornali e televisioni, a pensare che ci fossero poche altre cose al di fuori della politica, della cronaca nera, dello sport.
È per questo che spesso leggere un quotidiano o guardare un telegiornale provoca un misto di repulsione e angoscia. Perché il giornalismo va a caccia dei cigni neri, come vengono chiamati quei fatti imprevisti che rompono la normalità e che provocano negative emozioni.
Ma la realtà non è fatta solo di cigni neri: è fatta di vita quotidiana, di diritti e doveri, di problemi da affrontare e di soluzioni da trovare. E se è giusto e doveroso indignarci per il malaffare dobbiamo anche riconoscere che il mondo si muove grazie agli spiriti positivi, alla solidarietà, alla passione di far parte di una vera umanità.
Certo, non tutti i giornali dipingono cigni neri, ma nell’informazione quella che dovrebbe essere la regola, cioè rispondere alle esigenze basilari delle persone, è diventata un’eccezione. La normalità è fatta di giudizi sommari, di slogan più o meno accattivanti, di prese di posizione fondate sul pregiudizio e sull’utilità personale.
Forse qualcosa si sta muovendo. Per esempio un quotidiano tradizionalmente schierato come “La Repubblica” ha festeggiato i suoi primi quarant’anni, vissuti da militante nella sinistra più o meno colorata, con la nomina di un nuovo direttore, Mario Calabresi, già direttore de “La stampa” che nel suo editoriale d’insediamento ha avuto il coraggio di prendere le distanze dal giornalismo d’assalto o di schieramento.
Ecco quello che ha scritto: Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all’alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l’istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio. Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: “Il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà.
Una svolta rispetto al modo attuale di fare informazione con i giornali e soprattutto alla televisione, dove di servizio pubblico resta solo la definizione di facciata. C’è da augurarsi che Calabresi possa vincere la sua sfida: fare un giornale utile ai lettori e non schierato aprioristicamente verso una verità precostituita.
Non sarà una sfida facile: anche perché hanno fatto perdere credibilità all’informazione le scelte sbagliate degli editori e le difese corporative dei giornalisti. I primi abituando alla gratuità dell’informazione su internet, facendo sottilmente passare il messaggio secondo cui l’informazione che non ha prezzo non vale nulla. I secondi dimenticando l’umiltà necessaria per costruire un’informazione seria con il confronto, la verifica, la ricerca della semplicità del linguaggio.
In questi giorni si ricorda San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra all’inizio del ‘600. È ancora più utile ricordare come mai venne indicato da Pio XI nel 1923 come patrono dei giornalisti: per i suoi scritti e per la sua capacità di esporre con semplicità e pazienza la dimensione della fede, ma anche per aver trasformato le omelie, che nella maggior parte dei casi erano delle invettive, in una pacata e accattivante narrazione.
Per concludere. Per la buona informazione ci sarà sempre spazio. Ma il mondo è cambiato e i giornalisti devono rendersi conto che non hanno più il monopolio della notizia.
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