Una sola cosa non potremo dire: “Non abbiamo né udito né visto!”. I giornali ci hanno raccontato e la televisione ha portato in casa le immagini che illustrano il male come ineluttabile, la pornografia del dolore e della morte, gli sbarchi continui, il Mediterraneo – il “mare nostrum”, cioè il mare di tutti, la vasca battesimale della nostra civiltà occidentale – divenuto una fossa comune per migliaia di naufraghi, la culla delle onde di risacca stordita per aver custodito il sonno gelido di Aylan – tre anni –, le marce forzate di migliaia di donne, bambini, uomini indomiti nel percorrere sotto la pioggia una strada o un viottolo pur di trovare salvezza, il sogno europeo infrangersi miseramente con l’erezione di nuovi muri e con lo srotolare di chilometri di filo spinato, bambini in pianto bivaccare per giorni in mezzo al fango…
E come se non bastasse, abbiamo saputo di scafisti trarre vantaggio dai traffici di essere umani, di addetti all’ospitalità arricchirsi mettendo le mani sulle risorse destinate ai soccorsi, di camionisti corrotti scambiare un posto in cabina in cambio di una manciata di soldi, della cupidigia e del cinismo degli uomini trasformare le celle frigorifero in celle mortuarie, di poliziotti pronti a randellare, abbiamo sentito le miopie urlate della Lega, degli xenofobi, dei soliti politici di turno, fino a ieri contrari all’integrazione europea, che si appellano all’Europa per trovare un alibi alle loro omissioni, ben sapendo che l’Unione inizia dagli stati e perciò da loro.
Intanto sugli schermi di casa nostra giravano immagini di fosse comuni, di città rase al suolo, di sangue, di gole tagliate, di gabbie in cui rinchiudere e bruciare i prigionieri, di donne e bambini venduti, di bambine date in premio al miliziano, di stupri e di cristiani uccisi mentre pregavano in chiesa.
Di fronte a questa immane tragedia ci siamo voltati dall’altra parte: non volevamo vedere i profughi siriani, iracheni, palestinesi, curdi, libici, subsahariani. Non votano costoro. Ci siamo accorti di loro quando le zattere di disperati venivano sommersi dai flutti o quando occorreva condannare pubblicamente e giustamente i loro atti di terrore. Allora abbiamo alzato la voce: “Dobbiamo aiutarli a casa loro”, ignorando che questi poveracci fuggono da truci governi spesso arrivati al potere con l’aiuto di noi occidentali o da cricche tribali; “Rispediamoli al loro paese!” – abbiamo gridato, fingendo di non sapere che i loro paesi non esistono più neanche sulla carta geografica perché quei confini sono labili; “Bombardiamo i barconi!” – ha proposto qualcuno dimenticando di uccidere anche vittime innocenti; e così’ via: “Istituiamo il blocco navale”; “Respingiamoli…”. Dove?
E abbiamo aumentato la dose di insulti e accusati dei più efferati delitti quei disperati, dimenticando che nostri figli sono stati uccisi dal concorrente in amore nostrano, che al “Cocoricò “ ci sono state vite spezzate, che i nostri adolescenti uccidono la loro amichetta, che gioiellieri vengono uccisi da nostri plurilaureati, che il branco che molesta le ragazze sui treni è tutto domestico, che padri uccidono i figli e viceversa, che mariti perbene soffocano nel sonno la moglie…
Di fronte a questi problemi così complessi non dobbiamo angosciarci. Dobbiamo piuttosto attraversare questo segmento di storia senza cinico populismo né ingenuo buonismo. I fenomeni legati all’emigrazione sono anzitutto l’espressione della crisi dell’uomo che si identifica con le impressioni immediate, con la sua fragilità, i suoi umori, la paura del diverso. È in crisi l’ “umanitudine” (termine che riprendo da Senghor, il cantore della “negritudine”!), la coscienza di essere uomo, che è in relazione con gli altri, che vive in mezzo agli altri e che ha bisogno degli altri. Dobbiamo prendere coscienza della situazione, farcene carico, soprattutto cercando di capire che ciò che accade, anche se orribile, non viene dal nulla. Il problema non è facile da risolversi, ma una cosa è certa: quando la coscienza critica, la riflessione vengono sostituite da parole manipolate e distorte ogni avvenimento viene tradito, si perde la fiducia e ci si appropria della violenza.
Accanto alla riflessione occorrerà il coinvolgimento personale. Non basta condannare, occorre chiedersi quali sono le cause e ammettere anche le colpe di noi occidentali, trovare motivi e mezzi per rimuovere menzogne ideologiche, condizioni materiali e morali che determinano ingiustizie, discriminazioni, sopraffazione, negazione dell’umano. “Ci incontriamo facendo del bene” – ci ammonisce papa Francesco – e se le mie condizioni economiche mi permettono solo in minima parte di praticare il bene, proverò almeno compassione per tanta povera gente, cioè “patirò’” con essa. Ogni azione di carità se non mossa dalla compassione resta fondamentalmente estranea all’altro e non cambia il nostro cuore.
Accanto allo sdegno, occorre il coraggio per il cambiamento. I governi, l’Europa, le organizzazioni internazionali devono trovare maggiore unità per assicurare un’ospitalità degna di questo nome: non basta accogliere, occorre fornire un tetto, cibo, studio, lavoro per integrare chi desidera vivere tra di noi, rispettando le nostre leggi, la nostra cultura, le nostre tradizioni e contemporaneamente essere severi con chi delinque. I politici, chiamati a governare, ritrovino lo spirito di solidarietà che coniuga le legittime richieste di vivere in sicurezza in casa nostra e le grida di aiuto di coloro che fuggono dalla miseria e dalla guerra.
Non illudiamoci: il fenomeno migratorio continuerà. “Nel trapasso dal secondo al terzo millennio nella mia bisaccia di pellegrino – scrive Erri De Luca – metterei solo otto parole, quelle delle Beatitudini.”: finché gli uomini perseguiranno una politica frutto solo di calcoli accomodanti, di intese economiche, di interessi ambivalenti, di equilibri diplomatici il mondo non vivrà in pace.
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