L’eco sulla stampa più influente dello straordinario successo di “Don Matteo” è interessante non solo in sé, ma anche quale sintomo dell’ormai stabile divaricazione fra la cultura della gente in Italia, insomma del popolo italiano, e quella dell’élite laica-progressista che ha in pugno il mondo dei media.
Il primo episodio della decima stagione della fortunata serie televisiva, andato in onda lo scorso giovedì 7 gennaio sulla Rete 1 della Rai-tv, ha avuto un picco di ascolti di 10,2 milioni e un ascolto medio di 9,2 milioni di persone. Un successo davvero imbarazzante trattandosi in pratica di un caso unico nell’intero cosmo massmediatico del nostro Paese: l’unico sceneggiato (fiction), se non l’unico programma televisivo in genere, di esplicita ma non incartapecorita ispirazione cristiana. “Don Matteo” testimonia in modo simpatico, non clericale ed efficace che anche oggi la visione del mondo cristiana cattolica sa dare risposte giuste ai problemi reali della vita. Pur non essendo affatto un prodotto “cattolico” nel senso ufficiale del termine — diversamente da molti di quelli che lo sono, da “A sua immagine” in giù — “Don Matteo” dice come la fede non sia un handicap con cui imparare a convivere, bensì qualcosa grazie a cui vivere meglio e in modo più intenso e interessante.
Il successo è tale, e dura da tanto tempo che nemmeno quell’élite laica-progressista di cui si diceva lo può ignorare. Perciò se ne occupa, ma cercando di censurarne il significato in tutta la misura del possibile. Per vedere come lo si può fare, o comunque come si può tentare di farlo, prendiamo quale “caso di studio” La Stampa. Il grande quotidiano torinese ha dedicato a “Don Matteo” il servizio di apertura e quasi la metà di una pagina della sua sezione «Spettacoli» riservandone il resto a un commento alla trascorsa serie “È arrivata la felicità”. Questa, come è noto, era un catechismo politicamente molto corretto dell’attuale caos attorno all’idea di famiglia che spaziava dalle “unioni civili” fino a nientemeno che la “genitorialità omosessuale”. Di “È arrivata la felicità” ci si affrettava comunque a spiegare che è stata “una fiction record di ascolti”, ma senza dare cifre.
Torniamo però al commento su “Don Matteo” che così si apriva: “Criticato per la sua banalità e medietà, ancora una volta Don Matteo ha deluso i detrattori incassando ascolti che solo una finale dei Mondiali di calcio o la serata conclusiva del Sanremone nazionale (…) A dimostrazione che è vero: in Don Matteo e nelle sue storie un po’ gialle e molto di (buoni) sentimenti si rispecchia e si ritrova il Paese reale. Un fenomeno unico: è da 15 anni che Don Matteo macina ascolti sempre in crescita, quando in genere in 4-5 stagioni anche le serie di maggior successo iniziano a declinare (…)”. Lasciando stare la parola “medietà”, neologismo del quale non si sente il bisogno, vale la pena di soffermarsi su due termini-chiave di tale testo: “banalità” all’inizio e “(buoni) sentimenti” alla fine. Nell’ascoltare i dialoghi di “Don Matteo” chi conosce almeno un po’ la materia si accorge che sono spesso drammatizzazioni di passi di grandi filosofi e teologi cristiani contemporanei e talvolta pure del Vangelo. E lo stesso si può dire anche di alcuni personaggi e di alcune scene. Quindi più che di banalità degli autori dei testi si dovrebbe parlare di grande ignoranza dei loro critici. L’aspetto più significativo, e anche più paradossale, della distorsione che caratterizza commenti come questo è tuttavia ciò che qui si concretizza nell’espressione “(buoni) sentimenti”. Una distorsione che consiste nell’assoluta censura del contenuto cristiano dello sceneggiato. Tale contenuto viene declassato a semplici “sentimenti”, per soprammercato “buoni” soltanto fra parentesi.
In quanto al personaggio protagonista, don Matteo, ha un bel essere un prete, e tra l’altro un prete esemplare, pienamente uomo e pienamente prete, sportivo, senza complessi e limpido in ogni suo comportamento (con chiari riferimenti alla figura del giovane don Karol Woytila). La sua immagine sacerdotale viene per così dire…sterilizzata. Sembra quasi che il suo abito e la croce che porta al collo o sulla camicia siano non il segno del suo stato e della sua vocazione, ma semplicemente un “look”. Non viene poi percepito — ma poco male perché le immagini parlano da sole — quanto la scelta di ambientare “Don Matteo” in magnifici centri storici medioevali, ieri di Gubbio e oggi di Spoleto, sia un’efficace risposta ai luoghi comuni sul presunto buio del Medioevo.
Tutto questo dimostra quanto sia ancora lungo nel nostro Paese il cammino verso un riequilibrio del messaggio massmediatico complessivo. Oggi tale messaggio per lo più sovra-rappresenta in modo del tutto sproporzionato alcuni segmenti della società italiana mentre in modo altrettanto sproporzionato ne emargina e ne censura diversi altri. Tra questi in primo luogo la componente cristiana, della cui consistenza il successo di pubblico di “Don Matteo” è un sintomo che meriterebbe di non venire ignorato.
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