Gli anniversari, per quanto logori e abusati, hanno comunque la funzione di agire come dei link mnemonici, offrono, cioè, l’opportunità di tornare a riflettere su accadimenti del passato e sulla loro portata storica. L’anno che è appena iniziato non mancherà certo di offrire molti spunti alle commemorazioni rituali. Sicuramente non potrà essere trascurato uno dei più importanti avvenimenti per la storia culturale e politica del nostro Paese: la conquista del voto da parte delle donne.
Tecnicamente le donne hanno avuto il riconoscimento del diritto di voto con il decreto legislativo luogotenziale n. 23 emanato dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi il 1° febbraio del 1945. Tuttavia, non sappiamo se per una dimenticanza voluta o innocente, nei quattro articoli di quel decreto si affermava l’«estensione alle donne del diritto di voto», ma non si faceva riferimento alla possibilità che le donne potessero essere anche elette (tale omissione fu corretta con il decreto legislativo luogotenziale n. 74 del 10 marzo del 1946).
Erano state le donne ad esercitare pressioni sin dal 1944 affinché si risolvesse questa lunga e annosa questione, che i Parlamenti del Regno d’Italia non avevano mai voluto risolvere. Erano state le donne dell’Unione donne italiane (Udi), che nell’ottobre del 1944, insieme alle donne dell’Alleanza femminile pro suffragio e alla Federazione italiana laureate e diplomate degli istituti superiori (Fildis), reclamarono presso Bonomi il diritto di voto. Ed ancora, sul finire dello stesso mese, fu sempre l’Udi ad organizzare un incontro a Roma con le rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, da cui sarebbe scaturito un Comitato pro voto, che nei mesi successivi incalzò su questo tema il Comitato di liberazione nazionale.
Nella primavera del 1946, le donne italiane poterono esercitare per la prima vota il diritto di voto in occasione delle prime elezioni amministrative. Ma questo diritto, conquistato dopo un secolo e mezzo di lotte e dopo la partecipazione attiva alla guerra di liberazione, ritornò ad essere argomento di pubblico dibattito già all’indomani della riconquistata pace.
Mario Borsa, ad esempio, direttore del «Corriere d’informazione» (testata che sostituì quella del «Corriere della Sera» dopo la liberazione di Milano), intervenne sul suo giornale il 24 giugno del 1945 precisando di non essere contrario per principio «alla partecipazione della donna alla vita pubblica, dove il suo apporto può essere, in molti casi, prezioso», ma leggeva nella scelta del governo Bonomi una manovra monarchica, volta a «immettere, nel campo elettorale, masse impreparate malleabili, per poi manovrarle nel proprio interesse».
Per restare a casa nostra, anche il «Corriere Prealpino» di Varese manifestò qualche perplessità circa l’opportunità di far votare le donne. Anzi, in un articolo di Mario Spinetti del 28 agosto del 1945, si prospetta addirittura di rinchiudere nuovamente le donne entro le mura domestiche, relegandole, come nei bei tempi andati, alla funzione di schiave e fattrici: «si può ritenere conveniente la esclusione delle donne maritate dagli impieghi, o almeno da quelli in cui si troverebbero alle dipendenze di terzi. Non bisogna dimenticare che i compiti primi, naturali e tradizionali della donna sono l’allevamento dei figli ed il governo della casa; compiti che malamente potrebbero essere adempiuti quando la donna sia distratta da altre diverse cure che la obblighino a stare lontana dal focolare domestico».
Chissà perché, ogniqualvolta si levano voci che vorrebbero escludere alcune categorie di uomini e donne dal godimento di diritti che ad altri sono riconosciuti, gli integralisti e i fanatici (consapevoli o meno di esserlo) introducono nelle loro argomentazioni l’aggettivo «naturale»…
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