“Fusse che fusse la vorta bbona”. La famosa battuta che il buon Nino Manfredi, barista ciociaro in una televisione ancora nascente di più di mezzo secolo fa, rese celebre fino a farla entrare nel nostro lessico quotidiano, difficilmente – pensiamo – può oggi essere applicata all’ormai imminente arrivo in Senato per la discussione del ddl sulle unioni civili, in pratica, anche se tale parola non si dovrebbe usare, sul “matrimonio” tra persone dello stesso sesso.
La “vorta bbona” per chi? Espedienti per risolvere il problema presente anche in Italia da almeno un decennio sono già stati provati. È vero che, rispetto ai famosi Pacs e poi Dico (Diritti dei Conviventi) del 2006-2007, finiti in un temporaneo dimenticatoio ma non nell’eterno oblio, i tempi sono cambiati, anche nella Chiesa, forse oggi più “morbida” o più rassegnata nell’accettare una disciplina laica delle unioni civili, in quanto il riconoscimento di diritti nella società è o dovrebbe essere applicabile senza discriminazioni. Ma i se e i ma sono ancora molti.
Di natura politica, innanzitutto. Il proposito del premier Renzi, che finge il sereno distacco di lasciare libertà di voto in Parlamento ai suoi, è pieno di insidie, fino a mettere in pericolo e gravemente l’esistenza stessa del governo. Il codazzo di emendamenti al progetto è bene approntato. Le opposizioni ne sono ben consce, tanto che cadrebbe a fagiolo la manifestazione di un nuovo “family day” – e non importa se stavolta i vescovi guardano l’evento più da lontano rispetto al passato – quasi in corrispondenza con il dibattito. Perché ai politici, da noi, più che rispondere alle esigenze della società, ammesso che nel caso ce ne siano e siano fortemente richieste, interessa soprattutto arricchire la cassa della propria bottega. Tutti (o molti) d’accordo sul “family day” in piazza, un po’ meno tra le proprie mura domestiche. Ma fa lo stesso.
E dai problemi di natura politica si passa così a quelli di più “squisita” natura pubblica. Il ddl che si annuncia nella discussione (denominato ddl Cirinnà per semplificazione, benché in arrivo senza ben definiti padri putativi) ha il suo primo problema – quello che una decina di anni fa provocò di fatto la caduta di un accordo – nel principale dei due capi del disegno di legge, che appunto riguarda le unione civili, da legittimare in ossequio all’art. 2 della Costituzione: riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…
La parola famiglia o la parola matrimonio non si manifesta, ma una pure superficiale lettura del ddl fa intuire come le differenze, per una coppia eterosessuale, che scelga l’unione civile anziché il matrimonio civile siano del tutto nulle, se non in qualche irrilevante nominalismo. Identici i doveri di convivenza e i diritti ereditari del coniuge in caso di decesso dell’altro, la reversibilità pensionistica, analoghi i meccanismi di separazione e di divorzio. Non si capisce, dunque, perché due etero debbano fare ricorso all’unione invece che al matrimonio. È chiaro, allora, che il discorso riguarda soltanto le coppie dello stesso sesso, tema di più difficile digestione, diciamo così.
Ma qui cade – all’art. 5 del ddl – il secondo e più grave vulnus del testo in discussione, la cosiddetta “stepchild adoption”, cioè la possibilità di adozione del figlio dell’altro coniuge. Non solo perché si potrebbe verificare il caso del bimbo con due papà o con due mamme – non siamo psicologi e non ci vogliamo addentrare in tali meandri di discussione, per quanto l’etica che ci deriva da un’educazione antica ci dà già tutte le risposte che chiediamo –, ma soprattutto perché potrebbe accadere che una coppia faccia ricorso all’ “utero in affitto”, opportunità vietata dalla legge in Italia ma consentita all’estero. Sicché una coppia unita civilmente non avrebbe esitazioni, stanti così le cose, di provvedervi prima e di farsi riconoscere poi.
Su questo punto la Chiesa, i cattolici, ma anche moltissimi laici hanno fortissimi dubbi. Ed è qui che il ddl fortemente vacilla. Subissato, come si preannuncia, dai vari distinguo anche all’interno della “maggioranza” che per altro potrebbe già contare su un pacchetto di voti certo, se non certissimo.
Il secondo capo del disegno di legge, che riguarda i rapporti di convivenza, a una lettura rapida, ha soluzioni molto più blande. Il termine non sembri riduttivo, ma i paragoni con i propositi legislativi di un decennio fa lo consentono. Si parla qui solo di responsabilità e di reciproca assistenza, di possibilità di continuare ad abitare la casa di convivenza (ma non per sempre) nel caso del decesso del compagno o della compagna, di mantenimento – stabilito da un giudice – nel caso della cessazione di convivenza. Non si fa cenno a equiparazione ai diritti ereditari del coniuge, alla pensione di reversibilità.
Né, tanto meno, ci si inoltra nel terreno superminato della “stepchild adoption”, che sarà – alla fin fine – la vera materia del contendere.
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