Nessuna festività ha permeato la vita di quote così grandi di popolazione quanto il Natale, ad eccezione – forse – dell’ultimo giorno di Ramadan. Parlare del Natale significa confrontarsi anzitutto non con il suo significato strettamente religioso, ormai estraneo o poco sentito dai più, quanto con i ruoli che quella giornata, e ciò che la precede, assolve nella vita delle moltitudini. Ma, almeno in questo articolo, non voglio cimentarmi con problemi teorici. Poiché io stesso, come ciascuno dei lettori di RMF online, sono una molecola di queste moltitudini, parlerò del ruolo assolto dal Natale in certi passaggi della mia vita. Il solo nesso tra la consueta riflessione sugli stili di vita e i miei ricordi discende dal fatto che la narrazione a sfondo autobiografico costituisce la prima e più elementare tra le pratiche filosofiche. A costo di sembrare frivolo, mi limiterò a evocare alcuni ricordi, lasciando ai lettori il compito di trarre a loro volta ulteriori riflessioni autobiografiche sui vissuti natalizi. Il Natale alla mia età è la festa della nostalgia: malinconia e saudade. E per voi?
Ho alcuni nitidi ricordi familiari e scolastici del Natale tra i cinque e i dieci anni. I più remoti risalgono alle escursioni sulla collina dei Miogni, allora praticamente non edificata, alla ricerca di muschio per il presepe – o meglio presepio, come allora si preferiva dire. Quello che avanzava andava a coprire la terra attorno all’albero. Con cura mia sorella lo staccava dai muri e io lo infilavo in un sacchetto. Nelle stesse spedizioni si tagliavano dei rametti d’agrifoglio o di pino, per farne delle decorazioni. In casa gli allestimenti natalizi venivano fatti il pomeriggio dell’antivigilia, mai prima. Il Natale era atteso davvero; non partendo troppo presto non estenuava e non perdeva vigore. Quelle escursioni erano l’occasione per le prime scoperte del mondo a un chilometro da casa.
Ma l’annuncio dell’imminenza del Natale era già arrivato giorni prima. Mia madre usava servirsi ogni mese presso la drogheria Bianchi; faceva le ordinazioni per telefono il mattino, e la sera arrivava il garzone a portarle. Per Natale, oltre ai normali acquisti, arrivavano sin dalla settimana prima cioccolatini, torroni, panettoni, datteri, marron glassé, vasetti di marmellata d’arance inglese e di mostarda, qualche bottiglia di vino pregiato. Osservavo mia madre che, prima di pagare, controllava la lista e i prezzi mentre quel ben di dio veniva posato sul tavolo e sul pavimento.
Mi dava eccitazione anche l’arrivo dei fattorini che consegnavano i regali per mio padre: agende, calendari, bottiglie di champagne e di spumante, panettoni, libri editi per l’occasione dalle banche. I pacchi venivano subito aperti: volevo appropriarmi delle scatole di legno o di cartone. Al piacere di mio padre davanti alla sorpresa neppure pensavo.
Altre incursioni avevano come teatro il centro. Anzitutto le due librerie storiche, Pontiggia e Peja. Venivo parcheggiato per un tempo che sembrava interminabile in mezzo a stretti corridoi tra gli scaffali. La «signora Elsa» era cliente di mia zia, a nostra volta eravamo dei forti acquirenti e venivamo trattati con più riguardo di altri. Credo di aver pensato che i libri dovessero essere molto preziosi se la loro scelta da parte dei grandi era così accurata, e che perciò meritassero una doverosa reverenza. Diventato un forte e precoce lettore, ogni anno mi arrivava un volume dei Millenni di Einaudi: Andersen, Perrault, Afanas’ev, le fiabe italiane raccolte e riscritte da Calvino, le fiabe africane, il grande romanzo cinese I briganti; in prima media Cristo si è fermato a Eboli (una tortura finirlo!) e Civiltà sepolte di Ceram; a dodici anni, Moby Dick nella traduzione di Pavese.
Più a mia misura erano le incursioni da Vassalli per i giocattoli. Lì mi era concesso manifestare dei desideri, non troppi né troppo pretenziosi; poi qualcuno avrebbe provveduto. Mi piacevano le costruzioni; ma il trenino elettrico ho dovuto regalarmelo quasi da solo, risparmiando sulle paghette – non era concesso il diritto ad essere viziati con cose superflue. Nonostante la maestra ci facesse scrivere la consueta letterina a Gesù Bambino, era ovvio che i veri donatori erano i familiari. Bambini e adulti fingono di credere solo perché è più bello così; spiattellare le cose senza sorpresa è troppo prosaico. Infine, il mattino della vigilia era d’obbligo un pellegrinaggio da Battaini e Valenzasca, da Cantù per qualcosa di più sfizioso e inconsueto, dal macellaio e dal pescivendolo. Ma lì mi annoiavo. Però andavo pazzo per il mascarpone.
La seconda attesa era a scuola. Vi era una certa solennità. La direttrice, poi un direttore, teneva un discorso alla radio. Le elementari, o almeno la Morandi, trasudavano di proselitismo confessionale. Se le tradizioni son queste, meglio evitarle. Poco laboriosa e molto bigotta, la maestra poneva su una mensola una Madonna azzurra. Alla prima ora, dopo la consueta preghiera, il «gioco del silenzio» – vera e propria educazione al ruffianesimo – stabiliva chi avesse diritto ad accenderla; per tutti quelli che non erano stati richiamati, un’immaginetta faceva da premio di consolazione. Ogni aula aveva un piccolo presepio su un apposito tavolo. Un sacerdote faceva il giro delle classi all’inizio dell’Avvento, e tornava l’ultimo giorno per la benedizione. Mi colpiva il contrasto tra la freddezza con cui veniva accolta in casa mia la rituale visita del sacerdote e la palpabile emozione della maestra e l’assorta devozione di molti miei compagni. In dicembre, le letture dal sussidiario erano monopolizzate da vicende relative alla nascita e all’infanzia di Gesù e alla sua famiglia, o da vicende agiografiche circa le opere di carità. Quell’addensamento aveva su di me un effetto stucchevole.
Paradossalmente, a farmi sentire più buono in vista del Natale era Topolino. Persino zio Paperone, Gambadilegno e i Bassotti erano pervasi di «spirito natalizio». L’auto di Topolino era sempre colma di pacchi che uscivano dal bagagliaio. Nonna Papera sfornava dolci e altre leccornie. Paperopoli era animata da persone gentili. Anche Ezechiele Lupo si ammansiva davanti ai tre porcellini. Paperino era meno sfigato e Pluto più festoso del solito. Il Natale sembrava davvero esercitare un potere benefico su tutti i personaggi; e – non sembri ridicolo – a quel potere mi esponevo volentieri e senza resistenze.
Infine arrivava il periodo dei grandi pranzi: la vigilia dalla nonna materna, il pranzo di Natale da quella paterna, il cenone e Santo Stefano a casa mia. Nei giorni successivi capitava di essere invitato da qualche amico a pranzo o a cena, o che fossi io ad ospitarli. Si andava al cinema: indimenticabile Pane, amore e fantasia al Politeama. I film panettone esistevano già, ma il De Sica era un altro e Boldi non c’era. Si passava un pomeriggio ad Azzate, con i parenti di mia madre. San Silvestro scivolava quasi inosservato, salvo il rito del vecchio piatto da infrangere sulla strada. Capodanno era un tripudio, tutti i parenti riuniti da noi. Non so come mia madre potesse far fronte a quella mole di lavoro, che cessava cinque minuti prima dell’arrivo degli ospiti, quando si ritirava in camera per cambiarsi. Mio padre, come era consuetudine tra i maschi, non faceva nulla; se ne usciva per i fatti suoi, e rientrava poco prima che gli altri arrivassero. Il mascarpone non mancava mai.
I pomeriggi dalla nonna paterna erano sempre uguali. Al termine del pasto, su una cinepresa cigolante veniva installata qualche pellicola: Stanlio e Ollio, Charlot e nient’altro. Ma mi divertivo sempre, e poi per ore mi mettevo a imitare la voce di Stanlio. Quando arrivò la televisione, la cinepresa fu messa da parte; ma anche lì passava sempre Il monello e qualche comica di Laurel e Hardy. Natale sarà sempre per me la folta chioma bionda di Jackie Coogan.
Con la morte della nonna e il matrimonio e il trasferimento a Milano di mio fratello, il baricentro si è spostato. Rarissimi gli incontri con la zia paterna e i cugini. Ormai abbandonata la consuetudine della vigilia dall’altra nonna. Un anno a Milano e uno qui. Finito il liceo, ho iniziato a viaggiare. Erano anni in cui celebrare il Natale e la famiglia sembrava una tradizione logora e «politicamente scorretta». Dopo il matrimonio di mia sorella e le morti di mio padre e della nonna materna, tutto si è diradato per quasi un decennio. Ho trascorso dei natali da solo, ad esercitarmi in cucina e nel governo della casa, come la compagna femminista – inflessibile rieducatrice – pretendeva. È invalsa la tradizione di ritrovarci tutti a Milano, che dura tuttora.
Oggi Natale è un lavoro. Mi piace fare dei piccoli doni, per celebrare l’amicizia. Pensa e ripensa e poi regalo sempre un libro (più d’uno, per le persone importanti): almeno so dove cado, e manco del tutto di fantasia. Quest’anno ho deciso di essere seriale: un’antologia di scritti di Piero Gobetti per tutti. Ho ancora amici che inorridiscono a sentirmi proclamare anzitutto liberale. Chissà che così non mi capiscano, finalmente…
Ho passato dei bellissimi natali in Africa. Messe indimenticabili da curioso a Cotonou e Abidjan, in una bella cattedrale in cima al Plateau progettata dal fratello del filosofo idealista Ugo Spirito. Canti, danze e gioiosità: da noi un simile investimento della corporeità è inconcepibile; in Africa è impossibile prescinderne. Natale lì è però una fiammata, comincia e finisce, non si anticipa, non si prolunga, non si posticipa. E la povertà generale inibisce a priori le nostre ritualità consumistiche, sempre più vuote, sempre più invadenti.
Di tutte le antiche consuetudini, una sola sopravvive con ostinata fedeltà. Ancora il cammello di Ghezzi tutte le feste si porta via. La frenesia natalizia, che si chiudeva con l’Epifania, ora si consuma tutta nell’attesa. Ma la dolcezza dello stare tutti insieme in famiglia – con ciò che ormai ne resta – è oggi impagabile. È dalla morte di mio fratello che non parto più per Natale. Per un pensionato è sempre vacanza.
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