In questi ultimi anni si è determinata una caduta del sistema di sicurezza, è mancata infatti una vasta e profonda operazione culturale orientata alla formazione di una forte coscienza civica sul tema. Ci si è limitati a vivere di rendita, in molti casi non si è fatto nulla o quasi per favorire una relazione stabile e collaborativa tra chi opera nel settore della sicurezza e i fruitori stessi della sicurezza. Questa distanza ha rafforzato varie forme di ostracismo e una conclamata diffidenza che, nella maggior parte dei casi, si è trasformata in conflitto.
La relazione è mancata nell’educazione familiare e in quella scolastica, dove l’antagonismo sociale si è notevolmente acuito. Che i giovani non siano sempre sintonici con l’ordine pubblico lo si percepisce in modo netto dalle manifestazioni di piazza o nel corso di eventi sportivi che si trasformano spesso in guerriglia, mettendo in evidenza una incompatibilità di fondo dovuta a una mancanza di reciproca fiducia e conoscenza.
Il sistema delle relazioni dovrebbe avere un ruolo primario fin dalla scuola elementare, dove si forma la primissima rete concettuale e relazionale, rafforzando sistematicamente la conoscenza, il confronto, il dialogo e la collaborazione. Un cittadino ben formato sul piano educativo è infatti capace di essere controparte propositiva e collaborativa di chi è professionalmente preposto all’ordine pubblico. La mancanza di sviluppo collaborativo determina conflitti che limitano la fluidità dei rapporti umani e sociali.
Spesso la distanza tra cittadini e istituzioni è netta, non lascia spazio ad alcun tipo di civile comprensione. Per molti il rappresentante delle forze dell’ordine rimane “lo sbirro”, il professionista da “evitare” o da “fregare”. Di esempi ne abbiamo moltissimi e sono sotto gli occhi di tutti. Chi viaggia con la macchina, ad esempio, è costretto, suo malgrado, a diventare osservatore passivo di automobilisti che “fanno i fari” quando si accorgono della presenza di una macchina della polizia, dei carabinieri o della finanza.
Ci si rende immediatamente conto che esiste un antagonismo viscerale che non è mai stato preso seriamente in esame da un’azione protocollare seria. Chi collabora deve poterlo fare in un sistema di legittima discrezionalità. In molti casi il cittadino vede e non collabora perché teme per la sua privacy, quindi fa finta di niente, con gravissimo danno per la tutela della legalità.
Una libertaria evoluzione del concetto di democrazia ha demolito il significato stesso della democrazia stessa come autorità istituzionale, trasformandola in una sorta di madre disposta a condonare tutto, a trovare sempre una scappatoia, anche a costo di dover chiudere gli occhi. In molti casi è diventata strumento di delegittimazione. Un tempo i rapporti generazionali erano costruiti sul rispetto, che nasceva prima di tutto in famiglia, dove i giovani imparavano a rispettare l’autorità. Oggigiorno i genitori difendono a spada tratta i figli, creando i presupposti per personalità fragili. L’autorità è stata privata della sua veste istituzionale, è stata trasformata in un punto di vista facilmente addomesticabile e vulnerabile al punto che nessuno più se ne preoccupa.
I giovani soprattutto pensano che l’autorità sia una costruzione negativa messa in piazza da chi ha interesse a comprimere i diritti della gente. La si vede e la si interpreta in modo strumentale e demagogico come nemica della democrazia, come qualcosa che limita di fatto l’area del potere personale, quello che in molti casi consente di fare tutto quello che si vuole. Risulta evidente che coloro che incarnano per dovere costituzionale il principio autoritario della legge diventano i nemici da abbattere in nome di una non ben identificata libertà.
È in questa confusione interpretativa che si creano le incomprensioni e i malumori, è in questa terra di nessuno che si acuiscono le distanze e le diatribe, destinate spesso a trasformarsi in risse coadiuvate dagli strateghi della destabilizzazione.
La verità è che in famiglia e nella scuola non si fa tutto quello che si dovrebbe fare per sviluppare personalità consapevoli, capaci di riconoscere e gestire quegli strumenti democratici che sono la base su cui costruire rapporti corretti. Per molto tempo si è pensato che il modello democratico, fondato sulla partecipazione popolare, fosse l’unico, mentre in realtà la storia recente dimostra che non esiste un assoluto e che ogni stato, ogni popolo, contrae un modello mobile, dinamico, capace di modificare e conservare, senza nulla togliere alla storia personale di ciascuno.
L’autorità democratica è molto diversa da quella tirannica dello stato totalitario, perché si sviluppa e si relazione con la sfera della libertà di ognuno. L’autorità è la più alta forma di consapevolezza civile alla quale tutti dovrebbero poter accedere in virtù di un’educazione capillare portata avanti dalle istituzioni democratiche.
Dove le istituzioni funzionano abbiamo livelli di coscienza civica molto elevati. In questi spazi il cittadino si sente ufficialmente investito di poteri e funzioni che gli permettono di essere parte viva e attiva della comunità alla quale appartiene. Esce dall’anonimato e diventa artefice del proprio destino. Creare dei cittadini motivati e coscienti dovrebbe essere l’obiettivo di uno stato intelligente, capace di sviluppare forme democratiche e dinamiche di appartenenza.
Ci troviamo spesso nella condizione di non essere rappresentanti, di non poter gestire la nostra quota di appartenenza, rimanendo ai margini di una società che annulla, che spiazza la naturale inclinazione alla partecipazione.
Molti giovani non si sentono inseriti, non avvertono il senso dell’appartenenza, si sentono emarginati dall’autorità statale, quella stessa nella quale dovrebbero incontrare il loro riconoscimento civico. È in questa rottura di relazioni stabili che si inseriscono i meccanismi della dissoluzione legalitaria, è nell’abbandono che vanno sviluppandosi quei livelli di antagonismo che abbiamo sperimentato e che sperimentiamo sistematicamente nelle nostre scuole, nelle nostre piazze, negli stadi e in molti di quei luoghi che dovrebbero ospitare la consapevolezza democratica. È nel progressivo abbandono degli esseri umani alla loro storia personale che si frantumano le relazioni comunitarie e quel sistema di fiducia che diventa indispensabile nella costruzione di realtà democratiche capaci di generare benessere.
Autorità e democrazia non sono antagoniste, ma complementari. Senza democrazia l’unica autorità esistente è quella del tiranno, quell’autorità che non riconosce la sfera della libertà e che la combatte, impedendole di far crescere il cittadino cosciente. L’autorità democratica è quella che insegna le linee programmatiche attraverso le quali il cittadino legittima il proprio diritto alla appartenenza sociale, mettendo in campo il suo patrimonio etico e morale. Il processo di relativizzazione in corso in questi anni ha frantumato l’autorevolezza dei ruoli, caratterizzati da un progressivo abbandono.
Oggi sopravvivono ma non hanno un peso contrattuale e in molti casi vengono destituiti della loro forza operativa. Le forze dell’ordine, degne rappresentanti dell’autorità democratica, sono malpagate, male organizzate e maltrattate sul piano umano e della comunicazione in generale. Si vuole la loro totale e assoluta abnegazione, senza riconoscere la loro dimensione morale e sociale comunitaria, si punta il dito contro le loro inefficienze senza riconoscere i rischi ai quali sono sottoposte in ogni attimo della loro attività quotidiana.
Le iniziative al riguardo sono sempre molto parziali e insufficienti, invece di rafforzare si depotenzia, pensando che il loro contributo possa essere scontato. In molti casi il mondo della sicurezza e quello delle forze dell’ordine in particolare sono sottoposti alle vessazioni di una politica che tende a una gestione personale del sistema, sottraendolo al rigore logico degli eventi.
È in questa ridda di contraddizioni che si frantumano le energie di un ordine che è sostanziale ed essenziale per la custodia e il mantenimento della vita democratica del paese. Da quando l’ordine pubblico è soggetto alla vigilanza approvatoria della magistratura vive una situazione di sottovalutazione, capita infatti che impegnative azioni di polizia portate a termine in modo brillante vengano sminuite dal giudizio di magistrati non sempre sintonici e coadiuvanti rispetto alle intraprese.
Se da un lato la suddivisione dei poteri risponde a una formale visibilità dell’ordine democratico, dall’altro crea conflitti d’interessi che provocano giudizi contrastanti nei rapporti causa effetto. Oggi si parla molto di intelligence, ma l’ordine pubblico non è solo intelligence, è capacità di contrastare il disordine potendo disporre di una propria linea di azione, senza incorrere nei giudizi avversi e soggetti a pregiudiziali di ordine politico.
La psicologia della comunicazione riveste un’importanza fondamentale. Molte dispute nascono da atteggiamenti pregiudiziali che impediscono a priori soluzioni corrette. Chi opera deve poter lavorare in una condizione di garanzia personale e deve poter avere uno stipendio adeguato ai rischi che un simile lavoro comporta. Per troppo tempo i corpi dello stato hanno lavorato con stipendi al minimo, senza essere tutelati sul piano delle responsabilità personali.
Educare al senso di responsabilità significa affidare a chi opera in questo settore di poter disporre con serenità e determinazione della propria persona e del proprio lavoro. Ripristinare il merito significa riattivare l’amor proprio, l’orgoglio, il desiderio di essere protagonisti della storia personale e comunitaria. È in questa direzione che il mondo della sicurezza deve operare per garantirsi un futuro di attenzioni e di condivisioni, dimostrando che il nemico da combattere è nell’incapacità delle persone di porre in essere quelle forme di rispetto che fanno di una comunità un’ entità capace di creare forme convincenti di vita democratica.
You must be logged in to post a comment Login