Sono nato nel 1961. In marzo. A cento anni dalla nascita del Regno d’Italia. Appartengo, cioè, ad una generazione disincantata, a cui è toccato crescere nel tempo della «prosa» e non in quello della «poesia», come avrebbe detto Benedetto Croce. Schiacciati dalla memoria dei genitori e dei nonni, che avevano consumato la loro gioventù nella prima e nella seconda guerra mondiale; invidiosi per i nostri fratelli maggiori, che erano saliti sulle barricate del Sessantotto; a noi era rimasto un po’ di Settantasette e la cupa stagione degli anni di piombo.
Io, come forse buona parte della mia generazione, ho dovuto attendere di affacciarmi sulla soglia della vecchiaia per riconciliarmi con la storia nazionale e per poter pronunciare senza vergogna parole come Nazione, Patria, Italia. Per potermi riconoscere in una storia collettiva, certo contorta e non lineare, fatta di zone d’ombra e di luminosi esempi.
Ogni mattina, mi reco al lavoro. Entro in un luogo destinato alla formazione dei futuri (e, spero, migliori di me) cittadini. Il luogo in cui lavoro è dedicato a Ernesto Cairoli, il giovane patriota giunto da Pavia per morire a Varese nel 1859 all’età di ventisette anni. Arrivo in questo luogo attraversando un pezzo di via Venticinque aprile. Dall’altra parte della strada c’è una scuola intestata a Francesco Daverio, originario di Calcinate del Pesce, che invece scelse di andare a morire a Roma, sul Gianicolo. Era andato fin lì per difendere la Repubblica romana, di ispirazione mazziniana, che, nei suoi pochi mesi di attività aveva introdotto, tra l’altro, il suffragio universale, la libertà di culto e aveva abolito la pena di morte. Francesco Daverio morì nel 1849. Era nato nel 1815, duecento anni fa. La scuola dedicata a questo eroe (e sorta nel 1862) si è fusa con l’istituto dedicato a Nuccia Casula. Nuccia Casula fu uccisa dai tedeschi nel 1944. Morì all’età di ventitré anni. Aveva frequentato il ginnasio varesino «Ernesto Cairoli» e a partire dal 1943 si era impegnata nella lotta partigiana.
Mi piace molto, quando al mattino vado al lavoro, attraversare questi luoghi che sembrano disposti secondo un’ordinata sintassi etico-civile, in cui sembrano dialogare Risorgimento e Resistenza. E mi piace immaginare di far parte anch’io di questa sintassi e forse, chissà…, anche i miei studenti. In questa trama fatta di memorie e di storie, mi riconosco e mi trovo a mio agio. Credo addirittura che riprendendo il filo di queste storie forse si possa tessere una trama migliore di questo presente, correggerne gli errori, scioglierne i nodi.
Per questo motivo trovo inopportuna l’idea di dare un nome nuovo agli edifici scolastici che, mi pare, portino splendidamente e bene i nomi di Francesco Daverio e Nuccia Casula. Non mi piace la forma scelta, un «concorso», come recita la circolare del Dirigente scolastico pubblicata il 10 dicembre scorso, né mi piacciono le sue vaghe motivazioni: «Intitolare il nostro Istituto alla memoria di una persona deceduta per lo meno da 10 anni che, per meriti culturali, morali e comportamentali abbia contribuito con la sua opera a testimoniare, qualificare e dare prestigio al nostro territorio». Perché credo che Nuccia Casula e Francesco Daverio abbiano dato prestigio «al nostro territorio» (definizione, questa, che meriterebbe forse qualche chiarimento, per evitare il rischio che il «nostro territorio» possa essere confuso con il proprio personalissimo ombelico). E perché credo che luoghi come «il Daverio», come lo chiamano le numerosissime generazioni che hanno frequentato quelle aule, non appartengano ad un Dirigente scolastico ed al suo staff (così i nuovi Dirigenti amano chiamare i propri collaboratori). Luoghi come questi appartengono all’intera comunità cittadina: proprio perché simboli di una pedagogia civile. Difenderne la memoria non significa abbarbicarsi su posizioni nostalgiche e conservatrici. Questi simbolici ancoraggi dovrebbero tutelarci dagli sbandamenti identitari del nostro tempo e darci la rotta per il percorso futuro. E, al contrario, cancellare un vecchio nome per aprire le porte ad un non meglio precisato “nuovo”, non sempre è indicatore di progresso e modernità. Spesso, invece, denota una preoccupante confusione. Civile e culturale.
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