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Attualità

GIUBILEO/2 UN NUOVO TEMPO

EDOARDO ZIN - 11/12/2015

L’ultima seduta del Concilio il 7 dicembre 1965

L’ultima seduta del Concilio il 7 dicembre 1965

Tirava un gelido vento in piazza S. Pietro quell’8 dicembre di cinquanta anni fa, ma il cielo era sereno. Dal portone della Basilica uscirono i padri conciliari. Li seguì Paolo VI che, in sedia gestatoria, volle percorrere la piazza per salutare i pellegrini. Iniziò la messa da lui celebrata e all’omelia salutò i fedeli (“per la Chiesa nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno, a cui è diretto il nostro saluto, è un chiamato, un invitato, ed è, in un certo senso, un presente.”). La sua omelia sarebbe terminata al termine della messa, quando dopo la lettura del suo messaggio ai governanti, agli scienziati, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, gli ammalati e sofferenti, ai giovani, avrebbe consegnato personalmente copia del messaggio ad un rappresentante di ciascuna categoria. Così terminavano i lavori del Concilio Vaticano II. S’iniziava una stagione della Chiesa, a volte esultante e a volte malinconica, in cui “Tradizione e innovazione si abbracciano”, come scrive Agostino Marchetto, “il più grande ermeneuta del Vaticano II”, così definito da Papa Francesco.

Il dialogo col mondo, con la modernità era il pensiero che più spronava l’azione pastorale di Paolo VI. Non per una pretesa di proselitismo, non per far pressione su determinati gruppi per ottenere vantaggi, non per ambizione di restare maggioranza in un mondo che si stava laicizzando, bensì per invitare donne e uomini, credenti e non, atei e agnostici, indifferenti, cristiani benpensanti e dissennati a ricercare cammini di senso e di umanizzazione.

L’aveva scritto, all’inizio del suo pontificato: “La chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa messaggio; la chiesa si fa conversazione…Ancor prima di convertire il mondo, bisogna accostarlo e parlargli… Il dialogo…deve ricominciare ogni giorno; e da noi prima che da coloro ai quali è rivolto”.

Era, quello di papa Montini, un invito ad uscire, ad andare incontro al mondo facendo del bene. Si apriva così un tempo nuovo, una nuova primavera per la chiesa.

Tre anni prima, l’11 ottobre 1962, aprendo il “magno” Concilio, Giovanni XXIII aveva detto:” Quanto al tempo presente…la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece che imbracciare le armi del rigore”.

La stessa intenzione di amore ha mosso Papa Francesco ad indire un giubileo straordinario della misericordia che ha avuto l’inizio ufficiale martedì’ scorso con l’apertura della porta santa in San Pietro, ma che ha avuto il suo prologo con l’apertura della porta della cattedrale di Bangui, che è divenuta la capitale di tutte le periferie esistenziali del mondo, là dove ci sono coloro che sono considerati scarti dell’umanità. Domenica prossima, in cui la chiesa latina celebra la liturgia della domenica d’Avvento “Gaudete”, si spalancheranno le porte di tutte le cattedrali del mondo.

L’anno giubilare della misericordia è stato indetto in un tempo in cui su tutto il pianeta incombe “una terza guerra a segmenti” fatta di terrorismo, di ideologie farneticanti che seminano odio e violenza, di paura per i flussi migratori con tutto il loro carico di vicende drammatiche, di estrema povertà per tante persone, di disumanizzazione carica di indifferenza e talvolta di aggressività, perfino di lotte compiute in nome di Dio che proiettano su di lui il desiderio di vendetta, di forza, di trionfo. È il tempo in cui si erigono nuovi steccati, del rigorismo delle leggi che offendono il loro spirito, di coloro che vorrebbero strappare la zizzania assieme al grano buono.

Anche nella Chiesa si è ricaduti nel vecchio vizio di interessarsi ossessivamente del peccato altrui, anziché delle sofferenze dell’uomo, di coloro che hanno commesso errori, colpe e peccati, registrato fallimenti, vissuto separazioni, sono stati feriti nel cuore. Per costoro, la chiesa è – per usare un’immagine cara a Francesco – “un ospedale da campo”ove poter sanare piaghe e guarire malattie con la misericordia.

Ma che cos’è la misericordia? Non è solo il perdono, che può essere concesso in base a criteri di giustizia. Essa è il volto di Dio Padre che abbraccia il figlio pentito. Essa è la tenerezza con cui Gesù’ abbraccia il peccatore. Essa è l’accoglienza vissuta a immagine di quella vissuta dal Figlio inviato dal Padre non per condannare ma per salvare.

Papa Francesco ha aperto le due porte sante abbandonando vesti liturgiche sfarzose, compiendo gesti e scoprendo simboli che nella loro semplicità avevano il vigore della profezia

e svelavano il Mistero nascosto che si stava vivendo: spalancando le porte, ha voluto spalancare le porte della chiesa divenuta talvolta un circolo autoreferenziale; entrando lui per primo per la porta santa ha dimostrato di sentirsi lui stesso peccatore e bisognoso di misericordia come tutti coloro che attraverseranno le porte di una cattedrale, di un santuario o di una prigione o di una casa per sofferenti; ha bussato alla porta come Cristo bussa al cuore di tutti l’umanità; procedendo lentamente, quasi con fatica e appoggiandosi alla Croce pastorale, suo unico sostegno, alla testa di tutto il popolo di Dio, vescovi, preti e laici, si è avvicinato all’altare dove il Pane Eucaristico viene spezzato per essere condiviso da tutti e tutti essere circondati dalla misericordia, dal perdono, dalla riconciliazione, dalla comunione con Dio.

Un nuovo tempo si apre: non è più “l’anno del gran ritorno” voluto da Pio XII nell’anno santo del 1950, non è più il tempo dell’invito rivolto al mondo di Giovanni Paolo II di “aprire le porte a Cristo”: è il tempo in cui la chiesa si fa prossimo all’uomo abbandonato d’oggi e diventa il buon samaritano di tutti; è la stagione in cui scende la rugiada della misericordia.

“Siate portatori di misericordia come il Padre” – ha ammonito il diacono prima di licenziare l’assemblea del popolo di Dio riunita in San Pietro. Incomincia il cammino a ritroso: si esce dalla porta per perdonare i nostri fratelli, in atteggiamento di simpatia e di accoglienza verso tutti, dopo essere stati riconciliati a nostra volta. Incomincia la missione.

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