Dei quattro candidati alla carica di sindaco e competitori nelle primarie del Pd ne conosco due, i due Daniele: Daniele Marantelli e Daniele Zanzi. Voglio parlare di quest’ultimo, che ho avuto vicino come un fratello minore – e accanto a me c’era suo fratello vero, Roberto – fin dai tempi del liceo, al “Cairoli”, quando lui ginnasiale arrivava in moto da Sant’Ambrogio, dove entrambi abitavamo in quegli anni (io m’ero appena trasferito da Masnago), tutto scapigliato (altri tempi davvero), suscitando le ire di molti compagni. Intesi come i “compagni”. Quelli della sinistra e dell’estrema sinistra. Altri tempi anche questi, perché poi le storie della vita, il lavoro, i capelli che… cadono o s’imbiancano ci avrebbero pensato loro a raddrizzare la strada, tra destra e sinistra.
Molto più di me, che sono stato studente mediocre, Lele Zanzi ha dato lustro al liceo. Con un’intelligenza viva. Spontanea. Da curioso ricercatore e non da sgobbone. Alle angherie (anche da parte di qualche professore) sapeva reagire. So che alla fine dei suoi cinque anni di “Cairoli”, un prof famoso con il quale Daniele aveva intessuto un rapporto di odio-amore si recò a casa sua in via Oriani per convincerlo a studiare storia e filosofia. Non ci fu verso: lui ormai aveva scelto per agraria.
Studi a parte, quelli erano anni abbastanza complessi, per qualsiasi opzione. Io ormai lo seguivo con la coda dell’occhio e mi apparve ancora più affettuosamente simpatico quando lessi come lo descrivevano in un libro: Daniele Zanzi “lo chiamano Pelle per il suo razzismo”. La cosa, dicevo, suscitò ilarità (ma anche sconforto) perché a Sant’Ambrogio lo chiamavano “Pelle” per un eczema che lo tormentava e che non riusciva a guarire, nonostante pomate e cure.
Lo tenevo d’occhio dicevo, da neo-santambrogino, ma con il cuore sempre masnaghese, fino a quando ci incontrammo per una bella chiacchierata al parco di Villa Toeplitz, io con la Prealpina e il Corriere sottobraccio, lui con la macchina fotografica. Io cercavo solo un angolino per leggere in santa pace i giornali, Lele invece voleva fotografare i nidi di processionarie sulle piante. Ne sentii parlare per la prima volta, di questi insetti dannosi e parassiti, ma fu un’occasione anche per scriverne un pezzo: il parco di Villa Toeplitz era un parco di processionarie. Nessuno cui importasse, se non a un giovane studente di agraria.
L’idea che Daniele Zanzi ha della città – città giardino? – è questa. Il recupero alla sua più antica vocazione. E proiettarlo nel futuro. Città giardino dimenticata, ostacolata, danneggiata anche. Mi basterebbe quest’idea di recupero a vedere con gioia una sua eventuale elezione. Se non vi riuscirà basterebbero forse il tentativo e l’intenzione. Chissà: una minuscola processionaria infilatasi nell’orecchio di qualcuno.
Del verde di Varese e della sua cura, Daniele ha fatto una professione che è al massimo livello in Italia, in Europa e nel mondo. Chiacchierando ancora, poco tempo fa, s’è scoperto di avere avuto un’altra “matrice verde” in comune, oltre a quella d’essere vissuti nella stessa “città giardino”. Una presenza in Alto Adige per obbligo più che per scelta, almeno da parte mia. Lui a Merano e a Vipiteno (i famosi alpini del Morbegno, nappina bianca), io in tempi antecedenti a Vipiteno e a Merano, artigliere di montagna. A Vipiteno entrambi nella stessa caserma: la Menini-De Caroli. Qualcosa di più di un ricordo.
A Merano Daniele Zanzi è tornato per ridisegnare i “percorsi verdi” di quella stupenda città altoatesina, chiamato da un sindaco agronomo. Che sia – in ogni caso – di buon auspicio?
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