Sulla tela era generoso di colore. Il maestro di Bagheria dissipava il carminio e il giallo strisciando i cieli sopra i tetti di Velate in robuste pennellate di aranciati tramonti. O ne illuminava le vetrate domestiche di rosee trasparenze, accendendole del respiro della speranza. Le sue opulente nature morte – nelle turgide foglie di cactus, nei ruvidi agrumi, nelle fiammeggianti trecce di aglio – stillavano vita. A venticinque anni dalla morte e a un secolo dalla nascita – fu nel dicembre del 1911, ma venne registrato il 18 gennaio 1912 – questo è il ricordo del Guttuso più amato e visitato dal pubblico, anche quello che affollò la famosa mostra ai Musei civici, nell’84.
La gente aveva imparato ad apprezzarlo per la sua arte realistica, più “abbordabile” di quella di tanti altri colleghi contemporanei. L’uso così profondamente mediterraneo di oli e acrilici, il rimando ai colori accesi della Sicilia, persino agli odori e al gusto agrodolce dei frutti e dei profumi della terra che gli aveva dato i natali e dove ancora viveva e dipingeva – dividendosi tra lo studio siciliano e quelli di Roma e Velate – non potevano non incontrare il gradimento del pubblico. Che aveva forse imparato a seguirlo attraverso le cronache mondane – nei pettegolezzi da rotocalco – ancor prima che per il suo brillante percorso d’artista, iniziato giovanissimo, o per il parallelo impegno politico, intrapreso già in seno al PCI di Togliatti. Il nome del maestro era spesso accostato a quello di una nota signora dell’ aristocrazia, incontrastata, brillante primadonna dei salotti romani.
Ma nella pur ricca, importante vita di relazione, non mancavano dell’artista i toni umbratili, il bianco e nero di un carattere sfaccettato e non addomesticabile, non troppo propenso al complimento, al sorriso facile, all’ ospitalità scontata. Guttuso era solito far uso, nei rapporti quotidiani, degli stessi colori severi di tante sue inquiete opere, di certi disegni a inchiostro dai tratti contorti – meno graditi ai visitatori delle sue mostre – brulicanti di corpi umani come nelle bolge dell’inferno dantesco.
Fu vittima di quel suo bizzarro carattere anche l’amico scrittore Piero Chiara, con lo scultore Vittorio Tavernari una delle presenze della cultura varesine di cui Guttuso prediligeva la frequentazione, spesso anche familiare, in compagnia delle rispettive consorti. Chiara raccontò d’essere stato lasciato un giorno in vana attesa fuori dalla dimora-studio velatese. Era la casa, un casino di caccia, che il pittore aveva avuto grazie alla eredità della moglie Mimise Dotti, dove vennero alla luce alcuni suoi noti capolavori di grandi dimensioni. Quel giorno l’artista era più che mai immerso nel lavoro. E l’amico scrittore venne infine rimandato, senza essere ricevuto, per un fraintendimento del maggiordomo (così poi gli avrebbe raccontato Guttuso, riferendogli di un disguido sul nome che gli era stato annunciato).
Inutile cercare risposte o farsi domande sulle umoralità ruvide di Guttuso. Anni dopo, nell’83, darà prova di grande disponibilità e generosità ai varesini: su richiesta di monsignor Pasquale Macchi, già segretario di Paolo VI, e grande amico e conoscitore degli artisti, il maestro dipingerà l’affresco della “Fuga in Egitto”, sostitutivo di un affresco su analogo soggetto del Nuvolone, per la terza cappella della Via Sacra. A opera conclusa manifesterà, nel corso dell’ inaugurazione del 26 novembre, la felicità grande per quel suo lavoro svolto en plein air, con la presenza partecipe e rassicurante dei varesini lungo il viale delle cappelle.
Seguirà l’ attribuzione della cittadinanza onoraria al maestro e la mostra antologica ai Musei civici (nell’84), presenti eminenti personalità del tempo, tra cui l’amico ed estimatore Giulio Andreotti. Guttuso farà a sua volta dono dell’opera “La passeggiata in giardino a Velate” all’Amministrazione civica varesina.
Passo dopo passo la città stava dimostrando di averlo capito e accolto, spalancandogli infine le braccia, come si fa con un figlio che s’affaccia, un po’ riottoso, alla porta di casa. Le polemiche sui colori forti dell’affresco sacromontino, opera peraltro piena di grazia descrittiva e nobiltà narrativa – nella proposta tematica di un esodo familiare palestinese legato all’attualità storica – non riuscirono a guastare la festa dell’inaugurazione.
Fu un evento indimenticabile per Varese, per Guttuso un momento di emozione intensa.
La natura umbratile e solitaria del maestro cederà alla commozione, gli occhi accesi dalla febbre della malinconia, l’infinita sigaretta tra le labbra.
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