La grande fuga ha preso avvio nei primi anni Settanta. Nelle grandi aree metropolitane il 70 per cento della popolazione viveva in città, il 15 per cento nella prima cintura, il 15 per cento nella seconda; nelle città industrializzate; erano infatti sorte le maxi periferie per accogliere il nuovo ceto operaio, ma esse divennero dei luoghi invivibili perché prive di servizi, di luoghi di aggregazione, di scuole e di negozi.
La contestazione giovanile che si è sviluppata a partire del 1968 e l’autunno caldo del 1969 hanno cambiato la mentalità e la cultura dei cittadini rafforzando la coscienza di vivere in un mondo degradato dove la qualità della vita è nettamente peggiorata.
I “metropolitan businessman” continuano a lavorare nei centri urbani ma vanno ad abitare fuori: nei vent’anni successivi le grandi aree hanno perso il 10 per cento della popolazione. Pensano di sottrarsi alle criticità dei centri urbani, a cominciare dal traffico automobilistico, alle strade occupate dai cortei degli operai in sciopero e anche dagli agguati delle brigate rosse che uccidono o feriscono in modo grave gli esponenti politici. Credevano di aver trovato il “paradiso in terra” e il loro esempio venne ben presto imitato da migliaia di persone e così si sono formate aggregazioni urbane dove le villette si dispongono a schiera, i giardini sono diventati fazzoletti di terra intersecati dalle strade: cemento e asfalto provocano l’impermeabilità del terreno che provoca inondazioni e disastri perché spesso si costruisce anche sugli argini dei fiumi.
L’ambiente viene distrutto; al posto delle fertili campagne sorgono distese di casette e capannoni industriali dove si sono trasferite le fabbriche per lucrare sulla rendita urbana.
Oggi solo il 56 per cento della popolazione vive nei centri urbani mentre il resto è variamente distribuito sul territorio: vanno in cintura gli impiegati e gli insegnanti (43%), studenti (23%), e operai (17,5), i ricchi non ci sono più.
Il paradiso terrestre si è trasformato in inferno da quando è divenuto il posto privilegiato per i furti e la rapine che sono frequentemente apparsi anche sui giornali per gli esiti mortali.
Le casette sono state munite di inferriate che le fanno vagamente assomigliare a delle prigioni, quasi tutte si sono dotate di telecamere collegate con i carabinieri e i centri di sicurezza privati. Sui cancelli sono stati apposti, ben visibili, i cartelli con le scritte: “area video-sorvegliata”, “ zona protetta da sistemi di sicurezza”, o, più semplicemente “attenti al cane”. Però è palpabile la paura che tutto questo non serva ad alcunché; quando si torna a casa i vicini si raccomandano vicendevolmente “guarda che non ci sia nessuno dentro”.
Quarant’anni fa questi erano posti dove si stava benissimo, erano un’alternativa alla città inquinata e strangolata dal traffico: adesso è cambiato tutto. Il sociologo Giuseppe De Rita ha scritto che l’Italia, in quel periodo “diventò borghigiana, anziché borghese”.
Si è distrutta mezza Italia per raggiungere un sogno che è diventato un’ illusione e un incubo. Non sarebbe accaduto se ci fosse stata, come in tutti i grandi Paesi europei, una legge sui suoli e una programmazione urbana.
Ma la nostra classe politica, quella nazionale come quella regionale e comunale, parla dei “massimi sistemi”, dell’inquinamento e del riscaldamento globale che mettono a rischio la stessa sostenibilità del nostro pianeta, ma non fa nulla per evitare i danni temuti, neppure la programmazione del territorio, e non pone nessuna attenzione alla forma e all’estensione delle città e alla distruzione della campagne e delle foreste.
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