“Essere discepolo missionario significa avere come riferimento il buon Pastore, significa essere pastori che si lasciano pascolare. Non pastori che sono autonomi o che possono essere assimilati a capi di ONG. Pastori che si lasciano pascolare; fanno le due esperienze: di condurre e di essere condotto. L’immagine di Gesù buon Pastore mette in questo tono di vita spirituale, di essere conduttori condotti, dove, in ultima istanza, è il buon Pastore che dà l’impronta, che in un certo modo determina il cammino e guida alla vita piena. Che Gesù il buon Pastore pascoli voi, soprattutto nell’orazione, nella lettura della Parola di Dio, nella celebrazione della Eucaristia, e vi porti alla missionarietà, però guidata dal Signore”.
La “Lumen gentium” inizia così: “Cristo è la luce delle genti. La Chiesa è in Cristo in qualche modo il sacramento, il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.
Gesù è venuto e viene incontro ai consacrati: entrando nel tempio della loro vita, li ha avvinti, pervasi, attirati a sé per comunicare questa verità della sua vita come la verità della nostra vita. È nella luce che promana dal suo volto prende significato la professione religiosa dei voti.
Con la professione si diventa risposta vivente a Dio, che dice con la sua parola creatrice e redentrice: Tu mi appartieni! E i chiamati hanno risposto: Tu ci appartieni! Noi vogliamo consacrarci a te per sempre, sino alla fine della vita. Vogliamo portare a pienezza nel tempo che ci concederai e nell’eternità che non si concluderà mai, il nostro essere totalmente tuoi, la nostra personale comunione di conoscenza e di amore che scaturisce dalla tua parola, infallibile e fedele: Ti ho chiamato per nome! Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo!
Nell’appartenenza totale a Lui, buon Pastore, c’è la verità della vostra vita e il segreto della vera felicità. Non sta nel vivere questa “appartenenza” il segreto della felicità di ogni uomo?
Anche la società ha bisogno della testimonianza della vita consacrata, prima ancora e al di là dei servizi, pure validi che essa offre.
La sfida principale della pastorale è la crisi di fede, che si manifesta nell’ateismo pratico, che si manifesta nell’indifferenza, nel relativismo, nel vivere “come se Dio non ci fosse”, irrilevante nell’impostazione della vita.
La vita consacrata, sin dalle origini, si è distinta per la sua sete di Dio, per il suo “cercare Dio”, per il suo desiderio di comunione con Dio. Un Dio da ascoltare, da amare, da servire, da seguire, perché “in Lui viviamo, ci moviamo ed esistiamo” (Atti 17,28). Un Dio che ci parla e al quale siamo chiamati a rispondere con l’obbedienza della fede, con la disponibilità filiale, la fiducia illimitata, l’amore ardente.
Questa ricerca del Dio vivo e vero, del Dio di Gesù Cristo è il primo compito e la prima testimonianza che si può offrire al mondo, a questo mondo in cui Dio è sovente considerato irrilevante, una realtà impersonale.
Il primo contributo che la Chiesa si aspetta dalla vita consacrata è in ordine all’essere più che al fare. Testimoniare, con tutto quello che siamo, che Dio viene prima di ogni altra cosa, che Dio va ascoltato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. La nostra vita, infatti, è tanto più bella e attraente quanto più è aperta a Dio e ai fratelli, quanto è più totalmente di Dio, tanto più è dono per i fratelli.
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