Il lavoro è anche un dovere. Nel terzo capitolo della Bibbia il lavoro sembra essere una condanna, conseguenza del peccato dell’uomo che disobbedisce a Dio.
Molte sono le motivazioni del nascere di questo concetto, espresso con versi poetici ma nel contempo duri. Provo ad elencarne alcune: nel mondo antico veniva considerato lavoro solo quello manuale che costava tanta fatica; era duro e pericoloso, poteva essere causa di morte e dolore ( per cui evidente il carattere punitivo); il lavoro era degli schiavi, dei servi che erano in sofferenza continua; il lavoro non aveva compenso adeguato, per cui appariva prevalentemente solo il suo lato negativo. Allora il lavoro intellettuale non era considerato tale: gli antichi romani, ancora secoli dopo, lo definivano “otium”, mentre quello manuale era il “negotium”
Quando venne messo per iscritto il concetto del lavoro punizione, la società era molto diversa dalla attuale. Se può essere difficile e dolorosa la società dei nostri giorni, non è comunque paragonabile con quella violenta, dura, intrisa di sofferenza d’allora. Ci sono poi molte altre motivazioni, più profonde, ma spero dì aver giustificato in parte il concetto.
Cambiano i tempi: il lavoro si lega nella storia lentamente e faticosamente ad una giusta retribuzione che permette di vivere, sfamare la famiglia, allevare e istruire i figli, adeguatamente educarli. È evidente che il lavoro diventa un diritto, perché dà la vita ed è equilibrio della società. Esso è proprio dell’individuo “ protagonista”, non più dello schiavo, del suddito, ma del cittadino. Pur costando fatica fisica ed intellettuale, non è più punizione, ma dono. Per il credente potrebbe essere dono di Dio, dono della provvidenza di Dio. Il concetto è quindi cambiato, rivoluzionato.
Il lavoro dunque è un diritto, ma inevitabilmente diventa anche un grande dovere: deve essere compiuto bene, molto bene, al meglio. Non è legato solo all’individuo, al soggetto attivo, ma a tutto ciò che da esso deriva, perché sì, dà la vita al singolo, ma suoi i risultati si proiettano sugli altri uomini, sulla società, sulla realtà. Il lavoro del singolo dà la vita alla comunità. Di conseguenza deve essere svolto con il massimo della professionalità, e ovviamente deve essere “fatto”, realizzato, non evitato, fuggito.
Ai nostri giorni succedono fenomeni particolari: in molti ambiti sia che il lavoro venga fatto bene, sia che venga fatto male, addirittura che non venga fatto, la retribuzione non cambia e qui sorge la tentazione di approfittarne. Ma sorge anche una profonda implicazione morale perché, per quanto detto, il lavoro coinvolge tutta la personalità e tutta la società ed è immorale sfuggirlo.
Si deve anche saperlo difendere da sfruttamento, è ovvio.
Il lavoro quindi, non più punizione, deve essere realizzato con amore, con passione. Può sembrare paradossale ma il farlo con amore arriva a creare misericordia. Ne consegue un altro paradosso: il lavoro diventa preghiera. Quanto diverso è il discorso dall’idea iniziale della Genesi!
Abbiamo detto che nel lavoro si devono saper mettere tanti valori, per poter dare quella carica che gratifica la persona. Gratifica che non va confusa con il risultato economico dell’operare che, pur essendo aspetto giusto del consorzio umano, deve essere equilibrato per evitare di calpestare le necessità altrui e per non cadere nella speculazione. C’è il reale pericolo di abbandonare il grande insegnamento “amare gli altri come si ama se stessi” alienando il lato positivo del lavoro, che cessa di essere un diritto e si trasforma in abuso, in prevaricazione del prossimo. Altra eterna tentazione.
Meditazioni brevi ed incomplete queste dette ma spero sufficienti ad evidenziare e giustificare la grande sete di lavoro degli uomini.
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