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Stili di Vita

DIFENDERE E CUSTODIRE

VALERIO CRUGNOLA - 27/11/2015

valeria

Compostezza ai funerali di Valeria Solesin

Tutti ci siamo chiesti quali possano essere le conseguenze dei recenti attacchi terroristici che hanno avuto come epicentro mediatico il cuore pulsante della città di Parigi, e quali siano le reazioni più congrue. Poiché altri hanno già detto nel merito, mi limito a riscontrare due diversi comportamenti. Il mondo politico ha parlato di difesa e di stato di guerra; i parigini hanno reagito in silenzio, attenti soprattutto ai gesti simbolici. Questa diversità si può tradurre linguisticamente nella sfumatura che corre tra il «difendere» e il «custodire»: due verbi diversi, ma complementari e non in antitesi. Non vi è difesa senza custodia, né custodia senza difesa.

La difesa addita la necessità di tutelare la sicurezza delle persone, a Parigi o Bruxelles, nei cieli egiziani, nelle università keniote e nei villaggi nigeriani o maliani. La custodia ci impegna a tutelare gli stili di vita che derivano dal carattere pluralistico, laico e liberale d’Europa. Ambedue i termini presentano aspetti problematici. La difesa può spingersi oltre questa tutela? Se sì, fino a dove? E la custodia, quali protezioni implica: solo di noi stessi, o anche da noi stessi?

A poco serve, nella nostra epoca, una visione irenica della politica internazionale. Non è certo un inutile esercizio invocare, in nome di strategie di medio periodo, la cessazione della vendita di armi o l’embargo agli acquisti di petrolio (sempre che si sia disposti a sopportare le conseguenze economiche dell’aumento del prezzo del greggio), o sollecitare azioni di contrasto che isolino i fanatici integralisti a partire dalle comunità islamiche disseminate in ogni dove in Europa, offrendo nel contempo politiche di integrazione adeguate. E tuttavia fenomeni come i terrorismi islamisti a raggio globale esigono risposte di contrasto immediato. Se si è costretti a conflitti che non ammettono mediazioni perché chi ha deciso nella pienezza delle proprie facoltà razionali di esserci nemico ci attaccherebbe a prescindere dai nostri atteggiamenti, nessuna nostra remora etica, nessuna avversione all’uso della forza, nessuna rinuncia momentanea ad alcune conquiste di civiltà renderebbe lecita la nostra inazione nel difenderci.

Importa semmai il tipo di risposta: l’alternativa non è tra pace e guerra, ma sul tipo di impiego della forza. Già sappiamo dagli errori commessi con i fallimentari interventi in Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia e Mali che il ricorso a strumenti militari, per quanto necessario in astratto, può non essere opportuno nei modi o efficace rispetto all’obiettivo di portare pace e stabilità e di suscitare nelle popolazioni l’adozione di istituzioni e comportamenti che consentano l’esercizio delle libertà e delle pratiche di democrazia. La nozione di guerra asimmetrica è ormai entrata nel lessico corrente: ma spesso cogliamo solo l’asimmetria che riguarda «noi» e ci rende vulnerabili agli attacchi di forze oscure, non vincolate allo spazio, con tempi e obiettivi imprevedibili; non altrettanto cogliamo come le risposte militari fin qui adottate siano risultate impotenti o addirittura abbiano peggiorato le cose, ma ‒ in mancanza di strategie diverse ‒ tendiamo a ripetere gli stessi errori. Non sarà la grande coalizione tra la NATO, la Russia e qualche stato arabo di complemento a risolvere le cose. In Medio Oriente la lunga guerra fredda ha prodotto una rescissione radicale nelle possibilità di incontro e di scambio tra due diversi aggregati di popoli: quelli dell’Europa, Russia inclusa, e quelli, tra loro più eterogenei, di un’area che si spinge dalla Mauritania al Golfo Persico e dalla Turchia all’Asia centrale. Né l’azione militare né l’azione politica dei governi potranno ricostruire questi ponti da sole. Mai gli eserciti di per sé sono stati promotori di civiltà: la pura forza, anche quando sostenuta dalla ragione, anche quando necessaria, anche quando orientata da efficaci apparati di intelligence, non è mai stata e non sarà mai sufficiente. È qui che entra in gioco il nostro compito di custodia.

Il custodire va oltre il difendere, sia in positivo che in negativo. La difesa intesa come protezione va preceduta, accompagnata e seguita da un atteggiamento di cura e attenzione, da un legame di affettività e di condivisione che nessuna procedura militare o poliziesca può suscitare da sola e trasformare in un punto di forza che non sia quello securitario. Sia pur con fatica, fu proprio un sentimento di custodia a scattare quando, in tre momenti diversi, dopo le stragi neofasciste, dopo il delitto Moro e dopo le due stragi di Palermo, si trattò di chiamare l’intera collettività nazionale a presidiare attivamente le istituzioni democratiche dall’attacco prima dei terrorismi neri e rossi e poi della mafia. L’omaggio silenzioso dei parigini alle loro vittime mi ha ricordato la silenziosa, risoluta fermezza dei cittadini milanesi durante i solenni funerali delle vittime della stage di Piazza Fontana, o i pellegrinaggi popolari, ancora in uso, davanti al cosiddetto «albero di Falcone» in via Notarbartolo a Palermo. Forse è un mio difetto di memoria, ma non mi sovviene da parte dei politici italiani di ieri e di oggi un atteggiamento di sobria compostezza quale quello palesato dai genitori di Valeria, la giovane ricercatrice veneziana uccisa nella strage al Bataclan.

In un’epoca di crisi della politica e di oggettiva vulnerabilità delle istituzioni ma altresì dell’opinione pubblica, ambedue incapaci di riprodurre nella misura necessaria dei sani anticorpi, i cittadini sono chiamati anzitutto a mantenere la testa sulle spalle. La custodia implica amore non meno che razionalità, passioni limpide guidate dalla ragione, non impulsi bovini attizzati dalla demagogia. I terroristi non temono l’azione repressiva degli organi di polizia, perché si sentono votati a un presunto martirio, e nemmeno quella militare contro le loro roccaforti in Medio Oriente, perché contano di poter accusare l’Occidente di aver causato stragi inutili di civili con la foga imperiale del suo militarismo.

Altro è quello che vogliono: deformarci; suscitare in noi reazioni scomposte; spingerci verso un conflitto di civiltà che metta in luce i lati peggiori che hanno attraversato la nostra storia passata o recente, come la logica del dominio, il razzismo più o meno velato, uno sprezzante senso di superiorità, l’uso pedagogico della forza. Vogliono spezzare i profondi, secolari legami che abbiamo instaurato con la democrazia, con i diritti, le garanzie costituzionali, la mentalità laica, la convivenza interconfessionale, il pluralismo delle idee e delle opinioni, l’equità sociale, la libertà di autodeterminazione delle donne, la parità di genere, la sacralità della vita privata, lo spirito di accoglienza, il valore della cultura e della bellezza, la dolce piacevolezza del vivere e il ripudio del razzismo e della violenza.

Benché accecati dal loro spietato fanatismo, i terroristi conoscono bene la nostra debolezza, che ci ha reso scarsamente credibili in vaste porzioni di mondo tra Africa e Asia; captano i segni delle difficoltà in cui si trovano i nostri migliori valori di riferimento, e vogliono sfruttarli a loro vantaggio, avviandoci ad un imbarbarimento speculare e opposto al loro. Non dobbiamo consentire che barbarie chiami barbarie. Mai come ora dobbiamo invece dare ‒ tutti ‒ il meglio di noi stessi, consapevoli del peggio che invece potremmo tirar fuori, e ritrovare in questo sforzo un’identità collettiva che si stringa attorno alle conquiste del mondo occidentale che ho elencato, e che non sono né la supremazia tecnologica né quella finanziaria né quella dell’opulenza dei consumi. Non solo per difenderle, ma appunto per custodirle restituendo loro, con l’oculatezza delle nostre amorevoli cure, la necessaria linfa vitale, come facciamo con le piante del nostro giardino, nelle nostre case e sui nostri balconi.

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