Parole e locuzioni come Insubria, Terra insubre, Terra dei laghi, che tanto di sé hanno improntato nella denominazione locale e nella promozione degli ultimi anni, nelle nostre zone, non sono una novità. Hanno una “nascita” (o una riscoperta) che risale di almeno mezzo secolo. E ciò a parte le antichissime denominazioni di origine latina e i successivi sviluppi linguistici longobardi e medievali.
Un uomo che, tra i primi, quasi cinquant’anni fa, appunto, cercava di riproporle almeno come modello di sviluppo culturale in un territorio che non sempre si guardava con buoni sentimenti di collaborazione fu Manlio Raffo, all’epoca direttore dell’Ente provinciale del turismo di Varese. È curioso rilevare – ma non è l’unico caso – come Varese e il Varesotto trovino o abbiano trovato in personaggi non precisamente nati all’ombra del Sacro Monte (ma che il Sacro Monte forse l’hanno amato più di altri) i loro cantori e sostenitori. Pensiamo, solo per fare due nomi, al professor Salvatore Furia, siciliano, il fondatore dell’Osservatorio geofisico del Campo dei Fiori, e a Pietro Macchione, calabrese, storico del Varesotto, della sua economia e dei suoi protagonisti, appassionato editore. Manlio Raffo, che era nato a Roma, l’odiata “Roma ladrona” degli anni a venire, era proprio uno di questi.
Non v’è da pensare che fosse un uomo dagli entusiasmi facili e passeggeri. Con i suoi propositi era, come si dice, la goccia che piano piano scava la pietra. Ed era anche compassato e distaccato quel giusto, diplomatico tanto da non mettere subito sul piatto i suoi intendimenti, ma silenzioso e ostinato nel perseguirli.
Al giovane cronista che era al suo seguito – a Locarno e proprio in occasione di uno degli incontri in cui si tentava di far nascere una “nuova Insubria” (un territorio ampio tra Ticino, Verbano, Comasco e Varesotto) – Manlio Raffo, romano di nobili origini di cui ricorre in questi giorni il ventesimo anno dalla scomparsa, com’è già stato ricordato in questo giornale, per la prima volta si raccontò: dagli inizi, faticosissimi e avventurosi vissuti nella Napoli liberata dagli alleati degli ultimi anni di guerra, la Napoli delle am-lire, degli sciuscià, delle “segnorine”, la stessa Napoli descritta da Curzio Malaparte nel romanzo “La pelle”, alla sua venuta, poco tempo dopo, a Varese come funzionario del Ministero del turismo e dello spettacolo e, quindi, direttore dell’Ente provinciale per il turismo. Fu un connubio felice, per Manlio Raffo ma soprattutto per Varese, che dovrebbe essergli ancora debitrice.
Un uomo geniale, Raffo, che trovò in quegli anni lontani un terreno favorevolissimo. Citiamo solo alcuni degli eventi che scaturirono dalla sua mente e dal suo pervicace entusiasmo: le Giornate del cinema, a Varese, dove – agli inizi del 1954 – ebbe luogo la proiezione in prima assoluta in Italia del film di Federico Fellini “La strada”, poi Leone d’argento a Venezia e premio Oscar. E quasi in contemporanea con le Giornate del cinema – infine persesi nell’aere di molte velleità varesine e varesotte – il più duraturo concorso delle Noci d’Oro della Valceresio, che si tenne fino alla metà degli anni Sessanta, dove si premiavano i più bravi attori italiani emergenti di cinema. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta ognuno può immaginare il calibro dei grandi che ogni anno, sul finire dell’estate, si alternarono sui palcoscenici valceresini (da Marzio, a Duno, a Porto Ceresio, a Viggiù… ) grazie a Raffo e grazie a un altro personaggio, un milanese, che tanta parte avrebbe avuto nella storia, il critico cinematografico e teatrale Eugenio Tacchini. Grandi gli attori che lasciavano la nostra provincia con un trofeo d’oro grosso come una… noce; e grandi anche i presentatori – da Mike Bongiorno in giù – che allietavano quelle performance.
Ce ne sono tantissime. Ma così, tanto per ricordare, vorremmo citare altre due iniziative “inventate” da Manlio Raffo: la prima, che riguardava la città, si svolgeva tra giugno e luglio, ai Giardini Estensi, in seguito passò all’Ippodromo, la Mostra internazionale canina. Come dire, per i “laudatores” di oggi, una specie di ricorrente campionato del mondo con migliaia e migliaia di presenze e di visitatori ogni anno.
E la seconda – nata pure a cavallo dei favolosi anni Cinquanta e Sessanta (venne a “mettere il primo tassello” lo stesso ministro del Turismo e dello spettacolo dell’epoca on. Alberto Folchi) –: la galleria d’arte all’aperto di Arcumeggia. Anche questo un matrimonio felice tra arte e cultura e intelligenza promozionale. Prima che la “galleria” di Arcumeggia – spesso dimenticata, purtroppo – diventi un antro fantasma, ecco i nomi di alcuni degli artisti coinvolti nel rappresentare loro opere sulle facciate delle case del borgo e venuti apposta nel Varesotto: Tomiolo, Treccani, Ferrazzi, Dova, Monachesi, Montanari, Montanarini, Usellini, Migneco, Remo Brindisi, Aligi Sassu, il “nostro” Innocente Salvini… Di questa incredibile e magnifica “rassegna all’aperto” Piero Chiara scrisse: “Andare oggi ad Arcumeggia (…) vuol dire ritornare alla pace antica di un ameno villaggio fra i monti, dove con occhio calmo e riposato è facile prendere un contatto indisturbato con il messaggio che alcuni fra gli artisti più eminenti del nostro tempo sono venuti a collocare fuori dalla vicenda commerciale e dalla stessa eterna polemica sulle forme dell’arte…”. E insieme con l’occhio “calmo e riposato” dell’osservatore o del visitatore c’era sempre, lì ad Arcumeggia, lo sguardo vigile di Raffo, questo “asso” della promozione culturale varesina.
L’arte, il cinema, la storia, lo svago facevano parte del patrimonio ideale di Manlio Raffo, che al borgo dipinto di Arcumeggia dedicò gran tempo di sé e del suo lavoro. Una manifestazione collaterale con lo sviluppo del “borgo dipinto”, per esempio, fu il Premio all’emigrante. Un modo questo per ricordare quei molti uomini delle nostre valli, secondo un’antica tradizione, che spesso d’estate lasciavano le terre dell’Insubria in cerca di lavoro e vi tornavano ad autunno inoltrato, tra i loro figlioli e nelle loro case dove il fumo dei comignoli nei primi freddi cominciava a disegnare grigie volute di fumo nel cielo.
Facciamo ancora ricorso allo scrittore Piero Chiara, amico e “consulente” di Manlio Raffo, che agli inizi del suo primo romanzo – “Il piatto piange” (primi anni Sessanta) – scriveva: “C’erano poi, specialmente nei paesi delle vallate che scendono verso Luino, i muratori, gl’imbianchini e gli stuccatori che da secoli andavano in Francia, in Svizzera e in Germania a lavorare, seguendo itinerari familiari. E tanti cuochi e camerieri, quasi tutti delle valli di Dumenza o di Maccagno, che arrivavano fino in Inghilterra. Qualcuno di questi che tornava coi soldi si comperava un ristorante o un albergo, lo dotava di posate che portavano inciso il nome dei più grandi alberghi d’Europa. Le avevano rubate pazientemente, un poco alla volta, già col pensiero di mettersi un giorno per conto proprio nel mestiere…”.
Continuò per lungo tempo la consegna del Premio all’emigrante. Fino a che un giorno Manlio Raffo disse con un briciolo di malinconia, ma anche con tanta ironia, al giovane cronista: “Le cose stanno cambiando. Presto non avremo più emigranti da premiare. Dovremo inventarci qualcos’altro…”. E anch’egli uscì di scena. Con eleganza e senza clamori.
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