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Attualità

IO, RAPITO IN LIBIA

VEZIO ZAFFARONI - 20/11/2015

Marco Vallisa al suo ritorno a casa

Marco Vallisa al suo ritorno a casa

Al Collegio Arcivescovile di Tradate, nell’ambito del percorso “Visioni…oltre lo sguardo” ovvero l’incontro con diverse persone e personalità per educare i nostri occhi a “guardare oltre, dentro e fuori” la contemporaneità con criteri di bene e di verità, c’è stata la testimonianza di Marco Vallisa, tecnico piacentino rapito in Libia nel luglio 2014 e liberato dopo quattro mesi di prigionia.

Accompagnato dalla moglie Silvia che peraltro ha offerto la sua testimonianza di familiare in attesa a casa degli sviluppi della vicenda senza caricare troppo di tensione i tre figli ancora piccoli, Vallisa ha raccontato con chiarezza come sono andate le cose e con una serenità di fondo, senza accenti di risentimento, di odio verso chi lo ha reso protagonista di questa vicissitudine. A conferma di ciò è prova il passaggio quando ha affermato che i rapitori erano sì tali e pure integralisti islamici, di età giovane, ma fondamentalmente dei “poveretti” a cui è stato fatto il “lavaggio del cervello” e “senza speranza nel futuro” con “una visione riduttiva della vita”.

Vallisa si trovava in Libia, come tecnico nel campo edile, per conto dell’azienda per la quale lavorava e, ironia della sorte, l’obiettivo dei rapitori, in realtà, erano altre persone solo che, essendo egli uscito dopo dal cantiere per colpa di un cagnetto randagio adottato dallo stesso cantiere, fu preso con altri due. Da qui inizia la prigionia di quattro mesi in cui si mescolano, in Vallisa, vari sentimenti: dal timore per la sua sorte intravvedendo la possibilità della fine accanto alla speranza che tutto si sarebbe risolto positivamente.

Rievoca: «Mi resi conto che i miei familiari, a casa, dovevano pensare a sopravvivere, io dalla mia cella non potevo farci niente come del resto e pensare a come uscire positivamente da quella situazione che era più grande di me e mi opprimeva». La prigionia è stata alquanto dura, in una cella buia e senza finestre con difficoltà a soddisfare i bisogni fisiologici e a lavarsi, con botte e torture subite (filo di ferro legato a mani e piedi che entra col tempo nella carne e che lo ha costretto ad un anno di riabilitazione dopo essere stato liberato e gli ha lasciato come strascico il fatto di camminare un po’ zoppo) ma durante la quale Vallisa capisce l’immenso valore della vita umana, cosa non percepita dai suoi carnefici che lo considerano “merce di scambio”. Con essi, a volte, instaura un dialogo e li sfida sul loro terreno, sulla loro “materia” e si accorge che quando mina o mette in dubbio le poche certezze che gli hanno inculcato essi restano disorientati non conoscendo altro rispetto allo stretto cerchio di “dottrina” che hanno imparato. Un gesto di sfida fu quando, una volta, dopo il pasto trattenne una forchetta di metallo al posto di quella di plastica, che solitamente restituiva, e con essa segnò sul muro i giorni che, in base ad alcuni punti di orientamento, passavano e un crocifisso, segno fisico a cui aggrappare la sua speranza e a cui rivolgersi pregando.

Dalla moglie è emersa la costante trepidazione per la sorte del marito unita alla preoccupazione di non caricare eccessivamente di angoscia i figli (cosa tutt’altro che facile quando si è coinvolti in prima persona!) piuttosto infondendo segnali di speranza e sottolineando la professionalità e l’efficacia dell’Unità di crisi della Farnesina.

Poi, finalmente, la liberazione grazie all’intervento della polizia locale che aveva individuato il capo della banda; quindi il ritorno a casa a riabbracciare i suoi cari. Certo, Marco Vallisa col tempo ha dovuto far decantare la sua vicenda, ha dovuto “guardare oltre” i fatti terribili che gli sono capitati per cogliere che c’è una Provvidenza che lo ha guidato e che ancora tanta strada l’uomo, in generale, deve fare per essere “umanizzato” e considerare l’altro non un nemico da abbattere, ma un suo simile e rispettandone idee e credenze. Ha dovuto fare un percorso di elaborazione interiore ma alla fine ha visto la luce in fondo al tunnel.

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