L’incontro con l’opera di un filosofo non cambia la vita; nemmeno a chi si occupa di filosofia. Al più può cambiare il modo di pensarla, orientando meglio le nostre scelte; non è poco. Nel giugno 1990, mentre ero sottoposto a Tradate a una terapia riabilitativa, il mio collega di religione, don Rimoldi, venuto a trovarmi, mi regalò un libro di un teologo protestante di cui conoscevo a malapena il nome: Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer. Devo molto a quel libro. Con questi due articoli vorrei sdebitarmi con l’autore e con chi me lo ha donato, anche se lo ho perso completamente di vista. E spero, per mio tramite, di indebitare con Bonhoeffer anche qualcuno di voi.
Come Stein e Florenskij, anche Bonhoeffer fu un martire della libertà e della fede che saldò in modo esemplare scelte di vita e pensiero filosofico. Nato nel 1906 a Breslavia da una colta famiglia borghese (il padre è psichiatra, la madre insegnante), Bonhoeffer studia teologia a Tubinga e Berlino, dove si laurea nel 1927, a soli 21 anni. La teologia di Karl Barth imprime una svolta al suo pensiero. Tra il 1928 e il 1935 soggiorna più volte all’estero. Inizia la sua attività pastorale a Barcellona, a fianco della comunità tedesca locale. A New York si specializza allo Union Theological Seminary e frequenta la comunità afroamericana di Harlem.
Durante un breve soggiorno a Londra nel 1930 intraprende un epistolario con Gandhi. Qui, dal 1933 al 1935, riprenderà l’attività pastorale. Tra i due soggiorni londinesi è a Berlino, dove, dopo il conseguimento della libera docenza, insegna alla facoltà di teologia senza lasciare i compiti di pastore. In Germania coglie la crescente pericolosità del partito nazista, che contrasta sempre più apertamente.
In una trasmissione radiofonica a tre giorni dall’ascesa al potere di Hitler, sostiene che il capo politico, come qualsiasi altro uomo, non può essere oggetto di idolatria. Nell’estate del 1933, prima di partire per Londra, redige la confessione di fede di Bethel, dove prende posizione contro le persecuzioni razziali.
Una volta al potere, negli organi principali della chiesa evangelica i filonazisti divengono maggioritari. Un documento dei Cristiani tedeschi del marzo 1934 recita: «Nella persona di Adolf Hitler i tempi sono compiuti per il popolo tedesco. Mediante Hitler Cristo, nostro sostegno e nostro redentore, ha manifestato la sua potenza in mezzo a noi». Gesù viene visto come una «figura eroica in accordo con il genio tedesco». I non ariani vanno esclusi dalla chiesa e il popolo tedesco va protetto «dagli incapaci e dagli inferiori».
Due mesi dopo nel Sinodo di Barmen, presso Wuppertal, 138 rappresentanti delle chiese riformate sottoscrivono una dichiarazione teologica comune contro queste posizioni. Le sei tesi vergate da Barth costituiscono il manifesto della Chiesa confessante. Assecondando la decristianizzazione neopagana del nazismo, negando l’obbedienza dovuta alla sola parola di Dio, i Cristiani tedeschi hanno perso ogni legittimità.
Due tesi meritano qui rilievo. La terza: «Respingiamo la falsa dottrina secondo cui la chiesa potrebbe lasciar determinare la forma del proprio messaggio e del proprio ordinamento da proprie preferenze o dal variare delle convinzioni ideologiche e politiche di volta in volta dominanti». E la quinta: «Respingiamo la falsa dottrina secondo cui lo Stato, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo e totale ordinamento della vita umana tanto da assolvere anche la funzione cui è destinata la chiesa».
A Barmen l’opposizione di alcuni delegati bloccò un’esplicita dichiarazione a favore degli ebrei. Rientrato da Londra nella primavera del 1935, Bonhoeffer è in prima linea nel fare chiarezza. Nell’aderire alla Chiesa confessante, egli non nasconde il timore che i vertici del protestantesimo liberale, anziché sfidare a tutto campo il regime totalitario in costruzione, avrebbero potuto limitarsi a tutelare la loro libertà religiosa dall’invadenza del nazismo. «Soltanto chi alza la voce in favore degli ebrei ‒ scrive ‒ ha il diritto di cantare il gregoriano». Una chiesa venata di antisemitismo si pone fuori dal cristianesimo. Il diritto che si esercita davanti a Dio nell’esercizio della propria fede non nasce dalla ristretta tutela dei diritti di una confessione, bensì dalla tutela dei diritti di tutti, a partire dalle minoranze perseguitate. Di lì a poco l’ala moderata abbandonerà la Chiesa confessante.
Per Bonhoeffer la fede è una scelta etica che si incarna responsabilmente nella dimensione della storia: non la storia come esercizio del potere, o vicinanza ad esso in posizioni di favore, ma come prossimità ai sofferenti a causa della storia. Non basta perciò sapere cosa è giusto. «Non possiamo parlare delle azioni come di una possibilità ideale, bensì incominciare veramente con il fare. Accanto all’agire c’è solo il non agire. Non esiste un voler fare ma il non fare».
La coerenza dei cristiani si impernia sulla negazione del falso dilemma tra azione e inazione. Per l’epoca questa negazione oppone la resistenza alla resa. Chi usa la parola di Gesù diversamente che agendo, dà torto a Gesù, non mette in atto la sua parola, e nega le conclusioni del Discorso della montagna, che esortano ad andare per il mondo nell’obbedienza a Gesù. L’obbedienza è la sola via d’uscita dalla contraddizione tra l’ascolto della Parola e l’incapacità di tradurla in pratica. «Se un pazzo, nella Kurfüsterdamm, lanciasse la sua automobile sul marciapiede, come pastore io non potrei accontentarmi di seppellire i morti e di consolare le famiglie. Se io mi trovassi lì, dovrei lanciarmi all’inseguimento del guidatore e strappargli il volante dalle mani».
In un appunto del 1934 leggiamo: «L’atteggiamento nei confronti del problema del male nel mondo ha attirato simpatie ovvero odio» per il cristianesimo. «Ha sempre prodotto l’opposizione forte e sdegnata di una filosofia aristocratica che esaltava la forza e il potere, in contrapposizione con i nuovi valori di rifiuto della violenza ed esaltazione dell’umiltà. Anche nella nostra epoca siamo testimoni di questa lotta. Il cristianesimo resiste o fallisce con la sua protesta rivoluzionaria contro l’arbitrio e la superbia del potere, con la sua difesa del povero. Credo che i cristiani facciano troppo poco, e non troppo, per rendere chiaro questo concetto. Si sono adattati troppo facilmente al culto del più forte. Dovrebbero dare molto più scandalo, scioccare molto più di quanto facciano ora; dovrebbero schierarsi in modo molto più deciso dalla parte dei deboli, anziché dimostrare riguardo per l’eventuale diritto morale dei forti».
Dal 1935 al 1937 Bonhoeffer dirige a Finkenwalde, nei pressi di Stettino, un seminario clandestino della Chiesa confessante che unisce in sé quattro finalità: il pastorato, la predicazione, l’insegnamento e la formazione dei futuri pastori ad assumere una responsabilità etica nei concreti problemi del tempo. Nella conduzione del seminario, Bonhoeffer si impegna nella formazione di buoni pastori prima ancora che di buoni predicatori o di teologi preparati.
Finkenwalde non è l’esperimento di una comunità ideale; è una comunione di verità, non di emozioni vissute in sintonia. La comunità cristiana non è un consorzio elettivo di persone che condividono una fede e vivono secondo i suoi dettati. Tra ciascuno dei suoi membri si interpone la persona di Cristo: «In primo luogo un cristiano ha bisogno dell’altro a causa di Gesù Cristo. In secondo luogo un cristiano si avvicina all’altro solo per mezzo di Gesù Cristo. In terzo luogo fin dall’eternità siamo stati eletti in Gesù Cristo, da lui accolti nel tempo e resi una cosa sola per l’eternità».
Ciò che è condiviso, dunque, è anzitutto la preghiera. Solo la presenza di Dio tra un singolo e l’altro fa della comunità cristiana anche una comunità di cura reciproca d’anime (seelsorgerliche Gemeinschaft): «Non si è in grado di fare della cura d’anime se al tempo stesso non la si sperimenta personalmente». La vita comune che caratterizza il seminario è la condivisione del senso del ministero pastorale. Nelle circostanze del tempo, «c’è bisogno di un gruppo di pastori completamente liberi, pronti a impegnarsi. Devono essere pronti a essere là dov’è richiesto il loro servizio, in qualsiasi condizione esteriore, nella rinuncia a tutti i privilegi finanziari o di altro tipo, propri della condizione di pastore. Venendo da un’istituzione fraterna e ritornandovi sempre, lì trovano la patria e la comunità di cui hanno bisogno per il loro servizio. Lo scopo non è quello di un isolamento claustrale, ma della concentrazione interiore per il servizio esterno». «Il cristiano non deve chiudersi nella solitudine di una vita monastica, ma vivere in mezzo ai suoi nemici. Lì è la sua missione, lì il suo lavoro».
Il seminario verrà chiuso su ordine di Himmler alla fine dell’agosto 1937. Nel febbraio 1938 Bonhoeffer viene introdotto dal cognato, Hans von Dohnanyi, in un gruppo cospirativo contro Hitler guidato dall’ammiraglio Walter-Wilhelm Canaris e infiltrato nell’Abwehr, il servizio militare di sicurezza. All’impegno cospirativo si associano alcuni viaggi all’estero, per stringere contatti a supporto della Resistenza tedesca. Gli scritti ‒in particolare l’Etica, intrapresa nel 1940 e uscita dopo la sua morte ‒ approfondiscono i problemi della responsabilità politica dei cristiani, incluso il tema del tirannicidio. L’invito di Bonhoeffer a giudicare l’esercizio del potere in riferimento al vangelo prima che alla legge suona rivoluzionario in un paese dove per tradizione i luterani si disponevano al rispetto incondizionato dell’autorità politica.
Nel 1939, allertato dal cognato, per motivi di sicurezza si trasferisce negli Stati Uniti, ma allo scoppio della guerra sceglie di tornare, deciso a «prendere parte alle sorti della Germania». Una scelta, come vedremo, che gli costerà la vita.
(1 – continua)
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