Fino al momento in cui scrivo, le vittime dei terroristi islamici che hanno seminato la strage a Parigi sono 132, tra cui una ragazza italiana, e i feriti sono 300 di cui 80 in fin di vita: una battaglia militare dei giorni nostri avrebbe fatto probabilmente meno morti! Con l’aggravante che, con l’attentato allo stadio, i terroristi sono riusciti ad arrivare a pochi metri dal presidente francese Hollande.
Come ipotizzammo a gennaio scorso dopo la strage nella sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, anche questa volta le armi dei terroristi sono passate attraverso la frontiera belga poche ore prima di essere adoperate per la mattanza che, tanto per cambiare, ha preso alla sprovvista le forze di sicurezza e d’intelligence d’oltralpe. E anche questa volta l’ondata emotiva post strage consentirà al governo francese di celare all’opinione pubblica le proprie colpe e inefficienze in materia di sicurezza, e quel che è peggio impedirà una pacata analisi sull’accaduto a noi europei.
Eppure, se è ancora valido l’assunto del cancelliere austriaco Metternich secondo cui «Quando Parigi starnutisce l’Europa prende il raffreddore», siamo agli inizi di un attacco al Vecchio Continente per il quale non vi sono al momento realistiche difese perché quando, dove e come colpire saranno sempre i terroristi a sceglierlo. Dopo l’ attacco alla Francia, schierare preventivamente forze di sicurezza a difesa dei cosiddetti punti sensibili non significherà più niente perché punto sensibile può divenire, ormai, ogni inerme cittadino: dal tifoso allo stadio alla massaia nel supermercato, dai bambini a scuola ai fedeli della Messa domenicale in Parrocchia.
L’unica cosa saggia che in questo momento possiamo fare è mantenere la calma e cercare di capire dov’è che sta sbagliando l’Europa perché – e questo deve essere chiaro – in fatto di contrasto al terrorismo islamico essa sta sbagliando, specialmente laddove si mette a biascicare di principi che, stante la grave congiuntura, sono tanto evanescenti quanto inefficaci. Pensare, ad esempio, di poter sconfiggere il terrorismo islamico con gli ordinari mezzi della democrazia è proprio la sciocchezza che essi si aspettano che noi facciamo perché per loro la democrazia è semplicemente “kufr” e cioè blasfemia. Come dire che gli fornisce una ragione in più per odiarci.
La lotta al terrorismo islamico, ci piaccia o no, è uno scontro di civiltà e, in quanto tale, non si esaurirà in breve tempo sicché per neutralizzarlo bisognerà saper elaborare una strategia lunga almeno una cinquantina di anni. E non illudiamoci che basterà la tecnologia per vincere questo scontro, come non basteranno i satelliti e i droni. Un satellite certamente consente di individuare una autocolonna in movimento per poi bersagliarla con i razzi di un aereo o di un drone, ma di certo non riuscirà ad individuare un pazzo sanguinario che giri per Parigi o per Roma con delle bombe in tasca o con un kalashnikov sotto il giaccone.
Per avere successo in questa lotta, secondo me, il contrasto al terrorismo deve uscire dalla strategia da “guerre stellari” e ritornare con i piedi per terra, cioè all’esperienza, alla competenza, all’istinto del “cacciatore” dell’uomo schierato a difesa della propria comunità. La ragione di questo cambio di atteggiamento è meno truculenta di quanto s’immagini: il terrorismo islamico, per sua natura, non è tecnologico ma primitivo e, quindi, imprevedibile, erratico, rozzo e pensare di poterlo arrestare soltanto con la tecnologia sarebbe un grande errore. Questo terrorismo non ha bisogno di grandi mezzi tecnologici per seminare morte e distruzione, come dimostrano i fatti di Parigi dove le cinture dei kamikaze erano fatte con polvere da sparo e semplici chiodi per potenziarne l’effetto schegge.
Non bisogna dimenticare, poi, che il riferimento morale, militare strategico e ideologico della follia integralista è un testo sacro fermo al VII secolo dopo Cristo i cui precetti vengono applicati alla lettera e, pertanto, è perdente cercare di contrastarli sul piano della tecnologia del XXI secolo che non è il loro secolo ma il nostro. Perciò, per sconfiggerli dobbiamo essere capaci di entrare nella “loro era”. Ma la nostra più grande capacità deve essere quella di capire che il terrorismo islamico non è più un problema politico ma militare e che come tale deve essere affrontato. Questa è, probabilmente, la parte dell’analisi che piace di meno ai governanti ma, purtroppo, essi non hanno alternativa se vogliono vincere.
Dopo i fatti di Parigi il nostro Ministro degli Interni si è preoccupato di elevare il livello della sicurezza alla fase due e, per rassicurarci, ci ha informati che «L’antiterrorismo è in costante contatto con i colleghi francesi per seguire con estrema attenzione ciò che accade in Francia, anche allo scopo di disporre ulteriori interventi preventivi». Per carità, alle nostre vistose falle sulla sicurezza manca soltanto la consulenza dei servizi antiterrorismo francesi! E, poi, di che cosa si preoccupa Alfano, l’ISIS si guarderà bene di ordinare un attacco terroristico contro il nostro Paese: dove la troverebbe un’altra zona di transito e stazionamento perfetta come l’Italia? Da noi i terroristi che svernano ricevono anche lo stipendio. Tra i sette militanti dell’ISIS arrestati a Merano ed a Bolzano nei giorni scorsi, uno di essi godeva della casa gratis e riceveva uno stipendio di duemila euro al mese dello Stato italiano.
Neppure a livello locale v’è molto di cui preoccuparsi: le amministrazioni comunali stanno pian piano abdicando ad alcune loro prerogative, lasciando sempre maggiori autonomia alle comunità d’islamici sicché essi, invece di integrarsi che non è nelle corde della loro “superiore” religione, tendono a costituire delle comunità nella comunità, con striature a volte inquietanti. Un esempio? Ho smesso di andare a comperare frutta e verdura da un ortolano egiziano che, al mio allungare il collo per tenere sotto controllo gli ausiliari del traffico, pensò bene di rassicurarmi: «Non ti preoccupare, qua comandano gli egiziani». Altro che le tranquillizzanti assicurazioni del ministro Alfano!
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