Caro Direttore, come di consueto, nei giorni passati, mi stavo diligentemente applicando alla stesura di un articoletto per il tuo giornale. Come di consueto, avevo iniziato a raccontare una storia che, in qualche modo, mi permettesse di far dialogare passato e presente. Come di consueto…
Ma poi, venerdì 13 novembre, la violenza del presente ha scompaginato i miei programmi. Le notizie e le immagini e ancora i racconti di quanto stava accadendo a Parigi hanno catturato la mia, la nostra attenzione. La storia era lì, che si consumava davanti ai miei occhi… E mentre cercavo di raccogliermi in qualche riflessione, mi è arrivata una e-mail. Mi scriveva una mia studentessa di alcuni anni fa. Non la sentivo da qualche anno ed ora mi scriveva per condividere un’emozione e per cercare, se pure in un dialogo a distanza, delle risposte.
Io le ho risposto. Ti giro la lettera che ho scritto a questa mia giovane amica, non sapendo, in questo momento, cos’altro potrei scrivere.
Cara Irene,
sono molto contento di sentirti e di apprendere che sei felice e serena. Benché gli avvenimenti di questi giorni seminino intorno a noi ombre lunghe e gravide di inquietudini…
Anch’io, nel mio piccolo, sono qui ad interrogarmi su quanto accade. E dall’altra notte sto cercando di capire in che modo, lunedì, dovrò parlarne ai miei studenti. Gli studenti che da sempre ho davanti a me, sono esattamente come la classe che tu ricordi di aver frequentato: con le stesse fragilità, le stesse emozioni. Tu dici di provare un po’ di nostalgia per quel tempo, trascorso da poco eppure già così remoto. In realtà, lo stesso disagio, lo stesso senso di “isolamento” (non “solitudine”) di cui parli, lo provo anch’io. Mi guardo intorno o guardo dentro di me, e non riesco a trovare una qualche forma di razionalità in quello che è successo né riesco a tenere a freno la paura per quello che potrà succedere. Certo, ho sotto mano raffinate analisi storico-politiche e dotte spiegazioni filosofico-culturali, ma in nessuna trovo una cifra che possa aiutarmi a mettere ordine nel disordinato puzzle che ho di fronte.
Ho sentito insistentemente parlare nelle ultime ore di un “noi” e di un “loro”: “loro” non vinceranno; “loro” non cambieranno il nostro stile di vita; “noi” vinceremo; “noi” non dobbiamo avere paura. Ecco, in tutti questi discorsi non ho ancora capito chi sono “loro” e, soprattutto, non ho ancora capito a chi e a cosa si riferisca questo “noi”. Ho solo capito che il piccolissimo pezzettino di mondo in cui per puro caso ci è toccato di vivere ha pensato, fino a poco tempo fa, che ciò che avveniva appena fuori dal nostro ben difeso recinto non ci riguardasse. Abbiamo pensato che il nostro benessere, la nostra solidità economica e civile, la nostra potenza tecnologica non potessero essere intaccati e fossero destinati a durare per sempre. Poi, d’un tratto, scopriamo che una decina di uomini, disperati e fanatici, riescono a mettere in ginocchio la Francia e l’Europa e riescono a far vacillare uno “stile di vita”, che pensavamo forse ormai consolidato e incrollabile (passeggiare di notte in una grande città, spostarsi in aereo o in metropolitana, cenare all’aperto con gli amici, assistere ad un concerto: nulla sarà più come prima…). Di colpo, una decina di fanatici disperati, ci fanno ripiombare nel grigiore, nel clima di sospetto, nella paura, nella insicurezza. Di colpo, scopriamo di essere anche noi una realtà molto fragile e che i nostri recinti, per quanto alti e per quanto ben difesi, non possono isolarci dal mondo. E non riesco a non interrogarmi sul perché i 129 morti di Parigi (un’enormità!) mi abbiano sconvolto così tanto, mentre non sono riusciti a commuovermi sino ad ora gli oltre 200mila morti in Siria (in quattro anni e mezzo) o i 360mila morti in Afghanistan (dal 2001 ad oggi) o i forse 25mila morti della guerra civile in Libia (dal 2011) o anche solo gli oltre 3mila morti nel Mediterraneo (solo negli ultimi dieci mesi). So bene che l’emozione per la morte altrui è condizionata anche dalla “distanza”, fisica e culturale. Ma quelle cifre, nella loro asciuttezza, stanno lì a dirmi che il mondo, appena oltre l’orizzonte del mio sguardo, non è come lo immagino; è ben diverso da quello in cui vivo. La filosofia ci ha insegnato che la felicità (qualunque cosa questa parola significhi) non è una conquista individuale. Non posso pensare di essere “felice” in un mondo di “infelici”. Ugualmente penso che la “pace” (qualunque cosa questa parola significhi) non possa essere appannaggio di una piccola quota di persone.
E allora…?
Come vedi, cara Irene, le domande si moltiplicano e a nessuna riesco a trovare una risposta. Eppure…
Devi sapere che, apprendendo dei fatti di Parigi, il primo impulso, nella notte di venerdì, è stato quello di mettermi in contatto con mio vecchio alunno che sta studiando lì. «Tutto bene?» – gli ho chiesto attraverso un social network. «Bene, grazie prof.» – mi ha risposto subito. Ed oggi, ricevo da te una bella lettera…
Beh…, come sai, io non trovo mai le risposte giuste… Però, pensa alla cosa straordinaria che mi è capitata nel giro di 48 ore: di fronte all’ondata di orrore che ci è stata rovesciata addosso, di fronte alla paura che ci assale, mi sono trovato circondato in un virtuale abbraccio con persone lontane, diverse, che percorrono sentieri differenti. E tutti (tutti e tre), stiamo cercando di capire cosa sta succedendo. E tutti (tutti e tre), pensiamo che dobbiamo interrogarci insieme, parlarne e discuterne. Insieme.
So bene che questo non basta per cambiare il mondo e nemmeno per spiegarlo o spiegarci ciò che accade. Ma mi sembra comunque un ottimo inizio. Un bellissimo inizio, per poter ricominciare a sperare.
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