Qualche spunto di riflessione sull’attualità contrassegnata dalle drammatiche vicende parigine di venerdì scorso 13 Novembre.
Sommersi dai commenti più disparati e soprattutto da un clima soffocante di unanimismo perbenista rivolto a difendere la nostra “normalità” senza chiedersi quale dovrebbe essere la “normalità” degli altri, è il caso di interrogarsi un poco più a fondo. Si tratterebbe di andare a scavare negli intrecci miliardari a Wall Street e nella City tra fabbricanti e commercianti d’armi, produttori di petrolio, banche internazionali. E di meditare sul rischio dell’allineamento dell’insieme delle opinioni pubbliche dietro al vessillo di una civiltà occidentale da una parte e dell’islamismo puro e incorrotto (salvo finanziamenti) dall’altra. Dimenticando così la globalizzazione e la spinta al consumismo collettivo e individuale che questa ha provocato, fino al limite di rottura.
Rileggendo le biografie di quanti sono caduti o sono rimasti feriti dai terroristi dell’ISIS si coglie questo dato: Parigi, ma anche Londra, Roma, Madrid, Bruxelles, News York, Rio De Janeiro, e ora Shangai, Singapore, Johannesburg, Buenos Aires, Il Cairo, e gradualmente, Nairobi, Dacca, Kinshasa, siano quartieri del mondo. Meglio ancora, siano settori di un unico grande network che vive dove è necessario, e si connette con tutto il resto. La rete è diventata un’unica città. E l’occidente è diventato quella parte del mondo in cui si vive comunicando. Ed è il vero motivo per cui il Califfato non vincerà: questo mondo non è afferrabile né è sopprimibile. Purché comunichi valori e combatta per la pace, l’inclusione, l’uguaglianza sociale, non mistifichi la sopraffazione e la violenza di cui è portatore, non ceda alla tentazione della guerra.
Ancora una volta “qualcuno”, investito non si sa bene da quale autorità per disporre della vita degli altri, proclama “siamo in guerra”. Ma come dimenticarci di come si sia fatto di tutto anche da noi per riabilitare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e ancor più come strumento di potere geopolitico, alleandosi con i peggior regimi antidemocratici e progettando creature mostruose da cui è emersa l’ISIS? Chi chiama la guerra guarda lontano dalla civiltà e, in fondo, cede alla violenza cieca che ha distrutto le vite di giovani e passanti in una tremenda serata a Parigi. E non si venga a raccontare che l’unità senza comunità di valori paga il prezzo di una divisione del mondo tra “religioni”: una civile, l’altra bestiale, per usare le parole dei nostri giornali che non hanno mai gridato alle stragi che insanguinano quasi giornalmente Beirut, Il Cairo, Baghdad, Karachi, Kabul.
Se si cede all’irrazionalità, le grandi potenze affronteranno l’attuale situazione assieme per poi dividersi in un confronto bellico di portata mondiale, che appare essere il vero obiettivo nella contesa per l’egemonia sulle risorse mondiali sempre più scarse. Ma non c’è piena consapevolezza nemmeno tra chi respinge la guerra.
Molte delle forze che vorrebbero costruire un mondo di pace non vogliono leggere la realtà: ci si ferma ai proclami dell’ISIS o delle altre formazioni che hanno scelto la guerra asimmetrica ed il terrorismo, non ci si dà la pena di demistificare i proclami delle super armate forze dell’antiterrorismo e dell’esportazione della democrazia in sella ai droni.
Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo. La guerra non solo bussa alle nostre porte come milioni di profughi, la guerra è ormai tra noi. Combattiamola finché siamo in tempo a ragionare, a rimanere umani.
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