Il giudizio sull’ultimo film di 007 – “Spectre” – interpretato da Daniel Craig e diretto da Sam Mendes, preso come film a sé stante, è naturalmente legittimo e anche doveroso, sia per critici navigati sia per spettatori assidui, e magari attenti, categoria alla quale pensiamo di appartenere come la maggior parte dei nostri lettori.
Quindi, il giudizio che oggi se ne può dare è buono: almeno tre asterischi se la valutazione attinge al “metodo Mereghetti” oppure con un più particolareggiato voto espresso in decimi di 7-, se espresso secondo la maniera scolastica. Il meno è dovuto al fatto che, a nostro parere, il film ha per esempio qualcosina di… meno affascinante e coinvolgente del precedente, tre anni fa, “Skyfall”, sempre diretto da Mendes e con Craig come principale protagonista. Al termine, dopo quasi due ore e mezzo di proiezione della lotta scontata tra l’agente segreto inglese e la più grande organizzazione criminale del mondo (c’è molto di personale nella storia, in verità), lo spettatore se ne esce soddisfatto con la sensazione di non avere speso male i suoi euro e senza avere la tentazione di ricercare regista e attori per prenderli per la collottola…
Ma per l’esattezza e la sincerità – proprio perché si ha a che fare con un film di James Bond, il ventiquattresimo dicono le cronache dal 1961/62 a oggi – il giudizio non può non essere anche un pre-giudizio, specie nel rappresentare e descrivere la scelta e il lavoro dei protagonisti (da Daniel Craig, a Cristoph Waltz, a Ralph Fiennes, alla bella e giovane Léa Seydoux e anche alla nostra Monica Bellucci, inusuale “donna” di 007, benché ormai a cinquant’anni suonati). Nel senso che “Spectre” è anche la tesserina musiva di un’opera sequel, di un film di genere particolarissimo, il “genere 007”, più che il genere spionaggio. E che, lo si voglia o no, è sempre un film che un po’ rimastica sé stesso, che si autocita (non soltanto nei precedenti interpretati da Craig), che a parte le spettacolari richieste cinematografiche ha sempre avuto qualcosa a che fare, e ben più di qualcosa, con l’opera letteraria di Jan Fleming. Molti di noi, della mia generazione intendo, ricordano i libri pubblicati da Bompiani negli anni Sessanta, l’invenzione di 007, quelle deliziose sovracopertine giallonere e titoli sempre accattivanti.
La storia – pure quella cinematografica – è scontata: l’anarchismo operativo, i guai con i superiori, i duelli sul treno in viaggio o le spedizioni in alta montagna, gli abiti immacolati che spuntano chissà da quale valigia, i salvataggi in extremis grazie ai favolosi gadget procuratigli dal Dipartimento di White Hall… La preziosa Walther PPK, le sigarette esplosive, le valigette iperfornite, gli orologi (esplosivi e no), l’Aston Martin DB5 (Goldfinger), che qui riappare riesumata nella chiusura-fuga romantica con Léa Sydoux. E anche la battaglia universale contro il rivale di sempre, Stavro von Blofeld, il gran capo della Spectre si ripresenta a cicli. Come in un fumetto: lo scienziato Lex Luthor antagonista di Superman, il Jolly Joker di Batman, il Mefisto di Tex Willer, il Gambadilegno di Topolino (absit iniuria verbis)… Il film funziona, nella scia degli ultimi “capolavori” di spionaggio. Pensiamo soprattutto alla trilogia di Bourne, interpretata da Matt Damon.
E sta bene anche Daniel Craig, come la stragrande maggioranza degli interpreti bondiani (le raccolte indicano come eccezioni quelle di Barry Nelson, americano, e di George Lazenby, australiano) di immancabili origini britanniche, benché la sua “maschera” un po’ slava sia forse più indicata a rappresentare un “nemico” invece dello di Bond stesso. Craig ha tuttavia il merito – sempre a nostro parere – di essere riuscito nell’opera di rappresentare l’agente segreto inglese degli anni 2.0, e di far dimenticare (un poco) il sorriso ironico di Sean Connery, che era scozzese, il primo e probabilmente il più famoso agente 007. L’attore o, meglio, l’uomo che è riuscito a fare entrare il personaggio nel mondo del cinema di sempre, e anche un po’ nel costume e nella cultura.
Degli agenti segreti britannici “bon vivant”, secondo il nostro criterio personale, meriterebbe forse parlare poco. Bond è un fuoriclasse. Ma sempre abbiamo stimato (come attore) anche il travet Michael Caine di Ipcress. Tra le figure di Bond, invece, ricordiamo un ottimo David Niven. Ci sarebbe piaciuto poi vedere al lavoro un Edward Fox (ancora come attore bondiano). E ricordiamo che, proprio in queste settimane, è uscita nelle librerie un’autobiografia di un agente segreto britannico “vero”, e per altro ottimo scrittore: Frederick Forsith, che davvero poco richiama l’agente 007 (specialmente Craig), già pilota di caccia della Raf e poi operativo nella Berlino del Muro…
Ma il cinema è cinema. Si può rilevare che il giudizio di un film di 007 senza tener conto del passato starebbe a considerare l’intera e complessa opera architettonica di un Leon Battista Alberti – ci si lasci il paragone –, ammirando e parlando di una sola navata di una sua chiesa. Così come, tanto per dire qualcos’altro di audace, nella tv e nella storia della canzonetta Sanremo è Sanremo, indipendentemente dal fatto che a presentarlo siano stati Mike Bongiorno e Pippo Baudo; o Morandi, o Fazio, o Carlo Conti…
E poi le donne… Sulla scia dell’arcinota Pussy Galore (Honor Blackman in Goldfingenr), ma soprattutto delle italiane Daniela Bianchi (Dalla Russia con amore) o Luciana Paluzzi (Thunderball: Operazione tuono)… Certi giudizi, a proposito dell’ultimo 007, su Monica Bellucci (“Sempre bella ma non sa recitare…”) ci sembrano ingenerosi. Nei pochi minuti riservatile, Bellucci, probabilmente scelta per soddisfare il “palato” del pubblico europeo (per lo più italo-francese), ha fatto la sua decorosa figura. Pensiamo ad altre attrici italiane (specializzate da trent’anni unicamente in ruoli di donne nevrotiche e complessate), di come si sarebbero sentite poco a loro agio in qualità di “donne bondiane”.
E poi la Bellucci, che certamente non è una Duse, ha di sicuro un merito grandissimo: ha affrontato l’avanzare del tempo senza ricorrere a evidenti e forzosi restauri. Vengono in mente un paio di sue coetanee americane. Brave e (un tempo) amatissime e carinissime, che – per dirla con il nostro Giacomo Leopardi – sono intervenute su sé stesse fino a determinare un triste mutare e “scolorar del sembiante”.
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