Spesso le biografie dei filosofi possono davvero ridursi alla sintesi lapidaria, sbrigativa e ingenerosa di Heidegger su Aristotele: «Visse, lavorò, morì». In verità le scelte di vita di molti filosofi testimoniano il loro pensiero anche più dei loro libri. È questo il caso di Edith Stein (1881-1942).
La Stein nasce a Breslavia il 12 ottobre 1881 in una famiglia ebrea, nel giorno in cui si celebrava lo Yom Kippur, la festa dell’espiazione. All’età di due anni resta orfana del padre, commerciante di legname. La madre la cresce nell’osservanza della religione ebraica. Ma in giovane età si stacca dall’ebraismo e diviene una laica di convinzioni progressiste. Nel 1911 si iscrive alla facoltà di germanistica dell’università di Breslavia. Diviene un’attivista dei movimenti di emancipazione femminile, si batte per l’uguaglianza di genere e il diritto di voto alle donne. Il suo vero interesse è però per la filosofia. Nel 1913 decide di passare all’università di Groninga, per seguire le lezioni di Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia. Tra i suoi amici vi è il compagno di studi Max Scheler. Su suo impulso, senza convertirsi, studia la Bibbia e il pensiero cristiano, in particolare cattolico. Nel 1915 si laurea con lode e diviene assistente di Husserl.
Intanto la guerra già infuria. Molte donne vengono temporaneamente arruolate per prestare servizio nelle retrovie. Edith sceglie come destinazione un ospedale militare austriaco per la cura dei malati di tifo. L’esperienza l’avvicina ulteriormente al cristianesimo. Nel 1916, alla chiusura dell’ospedale, terminato il periodo di arruolamento decide di raggiungere Husserl a Friburgo. L’anno dopo, sotto la sua guida, ottiene la laurea magistrale con lode con una tesi sul concetto di empatia. Il saggio ottiene l’onore della pubblicazione, ma sarà di fatto riscoperto dopo la sua morte. La tesi si conclude così: «Ci sono stati degli individui che in seguito a una mutazione improvvisa della loro personalità, hanno creduto di incontrare la misericordia divina». È il segno della sua avvenuta conversione.
Nell’autunno del 1918 lascia Friburgo e torna a Breslavia. Rivedrà il maestro solo nel 1930, durante una sua breve visita di omaggio e di commiato. La scelta è motivata dal desiderio di conquistare la sua indipendenza. Ancora in quegli anni, le donne non potevano aspirare a un posto nei ruoli delle università tedesche. Il suo tentativo di ottenere almeno l’abilitazione alla libera docenza fallisce: la vera ragione dell’insuccesso è da cercare nelle sue origini ebraiche. Il veleno dell’antisemitismo già circolava nell’immediato dopoguerra. E forse è delusa dall’assenza di un’autentica ricaduta del pensiero fenomenologico sulla vita nelle sue concrete manifestazioni.
Tornata a Breslavia, dove vive di lezioni e di traduzioni, studia a fondo Tommaso d’Aquino, Kierkegaard e Teresa d’Avila. E proprio a quest’ultima, la mistica per eccellenza, si dovrebbe a suo dire la conversione definitiva al cristianesimo. Il capodanno del 1922 viene battezzata. Annota in quei giorni che quel suo ritorno a Dio nel cattolicesimo la fece sentire pienamente ebrea, e restituita alla sua religione d’origine. Per vivere si trasferisce a Spira, dove insegna tedesco e storia in un liceo annesso al seminario. Scrive, studia e si dedica a molte traduzioni di classici del pensiero filosofico e religioso.
Nel 1931 cessa di lavorare a Spira. Tenta di nuovo l’accesso alla libera docenza, ma la sospirata abilitazione le viene negata per la seconda volta. In seguito, pur senza aver preso gli ordini, decide di entrare nel Convento Carmelitano di Colonia. Di qui si trasferisce a insegnare all’Istituto di Pedagogia Scientifica di Münster, antica città universitaria e vivace centro di religiosità di orientamento cattolico. Qui scrive un saggio su Tommaso d’Aquino che più tardi, rivisto e ampliato, diventerà la sua opera filosofica maggiore, Essere finito ed Essere eterno. Annota su un diario la sua intenzione di fare di sé non un individuo per se stessa, ma uno «strumento di Dio».
Con l’avvento al potere del nazismo l’accesso degli ebrei all’insegnamento viene proibito. Nell’ottobre 1933 decide di diventare una suora carmelitana a tutti gli effetti. Una volta ordinata, si farà chiamare suor Teresa Benedetta della Croce, in omaggio alle sue tre figure di riferimento: i due grandi mistici Teresa d’Avila e Giovanni della Croce e il fondatore del monachesimo, Benedetto da Norcia. Nonostante gli impegni della vita conventuale, non cessa di occuparsi di filosofia, lavorando a un saggio proprio su Giovanni della Croce.
Nel 1938 la recrudescenza dell’antisemitismo la obbliga a trasferirsi per sicurezza in Olanda. Un anno dopo il paese sarà invaso e occupato dalle truppe naziste. Viene arrestata dalla Gestapo il 2 agosto 1942. Cinque giorni dopo viene trasferita ad Auschwitz. Qui muore in data incerta, probabilmente già il 9 agosto. Nel 1987 viene proclamata beata da Giovanni Paolo II. In suo nome, ai margini del lager di Dachau è ospitato un convento di suore carmelitane.
La biografia di Edith Stein ci mostra un itinerario che dalla filosofia giunge alla vita conventuale. La mentalità corrente ci spinge a pensare ad una frattura radicale intervenuta nella sua vita. La sua scelta appare oggi incomprensibile; e tale apparve anche allora negli ambienti filosofici che frequentava. Siamo soliti pensare che una vita possa dirsi realizzata in una professione, nella messa in valore dei propri migliori talenti. Di suore – ci diciamo – ce ne sono molte; le grandi filosofe sono rare (vale lo stesso per i maschi). Ritirarsi nel chiuso di un convento fa pensare, se non proprio a una vita sprecata, a una dissipazione di risorse e di opportunità. Sembra una rinuncia, una perdita e non una conquista. Quando pensiamo all’esercizio della filosofia, immaginiamo persone impegnate a insegnare, a scrivere libri, a tenere conferenze, a studiare. Ci sembra impossibile praticare la filosofia nel silenzio di un chiostro, seguendo regole di vita severe, scandite in primo luogo dalla preghiera, dalle meditazione e dal lavoro manuale consacrato alla comunità.
Non è così, almeno nel caso della Stein. L’approdo alla vita conventuale le appare come il compimento di una vita motivata dalla convergenza di religione e filosofia. Per capire, dobbiamo prendere le mosse dal pensiero del suo maestro. Con Husserl la filosofia si apre al mondo della vita. La svolta della fenomenologia fu feconda ma parziale. La vita e il mondo di cui parlava Husserl erano pur sempre una vita e un mondo pensati: la vita si dava entro il pensiero; la riflessione teorica sulla vita non implicava o presupponeva direttamente una vita vissuta che incorpora in sé il pensiero, che si fa vita interrogante e autoriflessiva. Lo stesso Husserl confessò nei suoi diari il disagio per avere vissuto una vita tutta chiusa nel circuito della speculazione astratta, e insieme per essersi negato la possibilità di concepire e di vivere per sé altra vita se non quella puramente speculativa.
Fu proprio per sfuggire a questo destino e vivere nella pienezza mediando tra loro vocazione religiosa e vocazione filosofica anziché dedicarsi a una filosofia teorica chiusa in qualche aula o stanza di lavoro, che la Stein compì una scelta tanto radicale. Come la religione, anche la filosofia va testimoniata nelle dimensioni ordinarie della propria vita. Non vi è uno scarto tra le due vocazioni e tra queste e la vita; vi è uno scarto enorme, invece, tra una religione convenzionalmente vissuta e la vita e tra la filosofia come disciplina a sé stante e la vita. Una sintesi tanto più esemplare, pur se atipica, perché fu costante preoccupazione della Stein vivificare la vita religiosa e monastica con la ricchezza propria del genere femminile.
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