Pennac Daniel, scrittore francese, già insegnante, ha ricevuto il Premio Chiara alla Carriera 2015, a Luino, domenica 1 novembre.
Al Teatro Sociale della città di Piero Chiara, il professor Pennac (cognome per esteso: “Pennacchione”) ha risposto alle domande “tipiche” (un po’ banali) che solitamente vengono rivolte agli scrittori: perché scrive? A chi si rivolge? Quanto impiega a scrivere un libro? Quando ha cominciato? Quanto c’è di autobiografico nei suoi libri …
Il pubblico, composto anche da tanti studenti delle superiori, ha ascoltato attento e partecipe, applaudendo e sorridendo all’eloquio fluido e comunicativo dell’autore ormai famoso ma semplice ed empatico.
Pennac è stato insegnante per trent’anni nelle scuole francesi. Un insegnante bravo e apprezzato, di quelli che conoscono e capiscono i ragazzi, non per benevolenza, non per cedimento di ruolo, non per sfinimento pedagogico. Ma perché capace di immedesimarsi, di riconoscersi, di avere sempre presente il proprio essere stato un bambino e un ragazzo.
Come ha raccontato in altre occasioni, il suo rapporto con la scuola e lo studio è stato difficile e conflittuale. Traduzione: Daniel era uno studente “scarso”, poco motivato, assente. Uno studente con il disturbo della disortografia, oggi riconosciuto dagli specialisti e curato anche con procedimenti didattici speciali. Un ragazzo sempre impaurito dalle richieste dei professori, giustamente esigenti ma meno giustamente vicini ai bisogni educativi degli studenti.
Questa è la vera eccezionalità della storia di Pennac: un pessimo lettore che diventa uno scrittore, bravo e affermato. Uno studente inadeguato che si fa strada nella vita.
Spiega Pennac: “Per prima cosa un insegnante dovrebbe interessarsi allo studente, cercare di capirlo, per poi passare con passione all’insegnamento della propria materia specifica, cosa che presuppone a sua volta una passione personale per quel campo. Ma oggi, nelle scuole, spesso questo processo è totalmente invertito”.
E prosegue: “Più di tutto, prevaleva in me la paura; mi chiudevo, mi sentivo incapace di esprimermi. E così la mia personalità si sviluppava esternamente alla scuola. Facendo sport, per esempio”.
Lo scrittore si è a lungo soffermato sull’importanza del saper insegnare: “Non c’è niente di più pedagogicamente appassionante che riuscire a far apprezzare agli studenti i libri che ti hanno reso un lettore felice, che veder imparare in matematica un ragazzo che non credeva che due più due facesse quattro”.
Il dialogo con il pubblico si è fatto più interessante quando sono pervenute le domande dei ragazzi, sia pure mediate dal giornalista intervistatore. Chiedono i ragazzi delle superiori di Luino: che scuola vorrebbe Pennac? E se gli chiedessero di programmarne una tutta sua, come si muoverebbe?
La scuola sognata dallo scrittore è un luogo con tanti laboratori, tutti quelli che è possibile progettare per potenziare la manualità: per imbianchini, elettricisti, idraulici, falegnami e per ogni sorta di attività che abbia attinenza con il saper fare. Ma, contemporaneamente, una scuola è un valore se è in grado di offrire spazi vivi dove ogni docente trasmette agli studenti il patrimonio culturale che lui stesso ha ricevuto in dono dalla famiglia, dalla scuola e dai gruppi sociali. Se sa costruire una nuova cultura con il contributo dei giovani. Se sa coniugare il sapere con il saper fare. Perché consentirebbe ai giovani di essere pienamente se stessi e allo stesso tempo di essere ricettivi nei confronti del grande patrimonio di conoscenze che ognuno riceve in eredità in quanto essere umano.
Mai come nel nostro millennio la scuola ha fame di un nuovo umanesimo che non si ponga in contrapposizione alla cultura scientifica, ingiustamente ritenuta arida e oggettiva. La società ha bisogno di una cultura vasta e aperta, multiculturale e multietnica, che si arricchisce dell’apporto dei rifugiati, degli immigrati, dei diversi. Questo chiede Pennac, una scuola nuova, melting pot come melting pot è ormai il mondo globalizzato.
Proprio perché viviamo dentro ad un’Europa che ancora non accetta di svolgere il proprio compito di accoglienza, ciascuno di noi dovrà imparare a farlo presto per consegnare alle giovani generazioni gli strumenti necessari ad affrontare il futuro.
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