Ha fatto scalpore la veemente levata di scudi, che la legge sulla “buona scuola” ha provocato non solo a livello sindacale, ma pure in sede politica (nella minoranza interna del Pd tra l’altro) e in alcuni settori dell’opinione pubblica. L’esame del testo blindato al Senato e votato con la fiducia su maxiemendamento, composto di un unico articolo distribuito in 212 commi e approvato dalla Camera il 9 luglio scorso, non induce a parlare di una riforma di struttura, quale invece si presentava per alcuni aspetti il profilo dei provvedimenti anteriori (Berlinguer 1997, Moratti 2003, Gelmini 2008).
Sciopero generale della scuola il 5 maggio, boicottaggio delle prove Invalsi, blocco degli scrutini proclamato, sit-in, una valanga di emendamenti in sede legislativa, annuncio di azioni legali in opposizione, per non dire del termine “deportazione” usato in occasione dello spostamento in province lontane dei nominati nella terza fase, sono la manifestazione di uno scontento profondo, per qualche verso riconducibile anche a ragioni corporative.
Restano le resistenze, solo in parte comprensibili, al cambiamento delle modalità di gestione del personale docente, più flessibili, meno automatiche e inerziali, col timore di atteggiamenti discrezionali e imprevedibili da parte della dirigenza. Resta il nodo di un contratto di lavoro fermo al 2006 per quanto concerne la parte normativa e al 2009 a livello economico come ostacolo maggiore al compimento di una vera riforma della scuola. Ci troviamo di fronte altresì alla recente pronuncia costituzionale sulla illegittimità del blocco dei contratti pubblici. Ed è ancora da risolvere il problema del rapporto Stato-Regioni.
La legge è comunque nata dall’idea di migliorare l’esistente, non contro quelle precedenti. Le risorse collocate nella Legge di stabilità 2015 (190/2014) prevedono oltre tre miliardi di euro a regime e si tratta di uno stanziamento in controtendenza. Chiaro risulta l’intento di riformare il sistema di reclutamento dei docenti, definendo come unico mezzo il concorso, superando il groviglio delle disposizioni finora in vigore, di stabilizzare l’impiego dei docenti nelle scuole su base triennale e di eliminare le attuali graduatorie triennali ad esaurimento. C’è bisogno di un organico potenziato e funzionale all’autonomia delle scuole per progetti, sostituzioni e attività di incremento dell’offerta formativa.
Si contempla nel complesso il passaggio da un organico di 625mila docenti a 680mila (rimediando alle contrazioni del passato: -90.000 docenti con la riforma Gelmini). C’è il bisogno di eliminare le classi pollaio a difesa di un autentico diritto allo studio, di ovviare alle esigenze del tempo pieno, d’affrontare il problema delle liste di attesa nelle scuole dell’infanzia, d’ovviare alle difficoltà che si incontrano nell’iscriversi ad alcuni indirizzi superiori, all’insufficienza di docenti di sostegno.
In rilievo è il superamento del sistema inerente alle graduatorie dei docenti con la creazione di albi territoriali, onde la chiamata diretta da parte dei dirigenti: questo è uno dei punti considerati più nevralgici, ma non si tratta di semplice discrezionalità, quanto di un’operazione svolta in relazione ai criteri oggettivi collegialmente definiti nei singoli istituti. Altresì in discussione è il sistema degli incentivi, dei bonus, da non definire ad arbitrio, bensì da assegnare secondo pareri espressi dal Comitato di valutazione; ma c’è pure un’attività superiore di controllo da esercitare sui comitati stessi affidata al Ministero nelle sue articolazioni, come al giudizio dell’opinione pubblica.
Nessuna innovazione è introdotta in merito alle modalità di licenziamento dei docenti che risultino inadeguati al compito, una volta definiti anche precisi requisiti da inserire nel piano triennale dell’offerta formativa. Le resistenze a un piano serio di valutazione del servizio scolastico e dei suoi operatori si possono soltanto spiegare in base a criteri corporativi, che umiliano la serietà del sistema scolastico. Bisogna pure che la carriera dei docenti proceda finalmente in relazione al merito, non solo in base alla posizione per anzianità. Ogni pretesa di comodo, di una professionalità incongrua, stanca, rassegnata, priva di stimoli, in qualche caso addirittura parassitaria, pressappochistica, va scongiurata.
Si aprono comunque spazi per sviluppare al meglio la finalità orientativa, per potenziare i percorsi concernenti l’alternanza scuola-lavoro, l’uso e la frequenza dei laboratori; si rende obbligatorio l’aggiornamento in servizio, si pongono limiti ai contratti di supplenza a tempo determinato. Per modica che sia, la conversione di rotta della legge in positivo è confortante.
Si accentua la rilevanza del ruolo dirigenziale, con responsabilità conseguente, per esempio nella scelta delle funzioni obiettivo, senza il vincolo del Collegio dei docenti, nello sdoppiamento delle classi, senza alcuna autorizzazione dell’amministrazione scolastica, però nel limite delle risorse disponibili e compatibili con l’organico funzionale.
L’altra decisione entrata nel mirino della contestazione riguarda lo sgravio fiscale concesso agli alunni iscritti alle scuole paritarie sino a una detrazione pari a 400 euro (vale dalla scuola primaria sino a quella superiore). Nessun attacco alla laicità dell’istruzione, né al contempo un tentativo poco coraggioso. Le numerose e reiterate pronunce della Corte Costituzionale in materia valgono a superare la polemica. Non si tratta di un obbligo da parte dello Stato, né di un vulnus alla legislazione. Il provvedimento corrisponde a un principio di equità.
È piuttosto da rilevare che nel momento in cui il Governo chiedeva ai cittadini di esprimere il proprio parere sul progetto on line su circa un milione e trecentomila accessi al sito hanno risposto al questionario soltanto in 207.000 casi (appena 14.000 gli studenti coinvolti nelle contestazioni).
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