In questi giorni, accanto al ricordo dei cari scomparsi, si celebra anche il ricordo di coloro i quali hanno perso la loro vita nella eterna successione di guerre che ha insanguinato e insanguina la storia. Accade, in queste occasioni, di ritrovarci in una situazione simile a quella rappresentata nel grande film di Abel Gance, J’accuse.
Abel Gance (1889-1981) fu un grande attore, teorico, sceneggiatore e regista del cinema francese. Quando scoppiò la Grande guerra, benché fosse stato esonerato dagli obblighi militari per motivi di salute, chiese e ottenne di potersi recare al fronte per girare dal vero alcune scene di battaglia. Alcune di queste scene confluirono poi nel film che abbiamo citato, realizzato tra il 1918 ed il 1919. Il protagonista è un poeta-soldato, che rimane ferito in battaglia. Verso la fine della pellicola, il protagonista convoca gli abitanti del suo villaggio e racconta loro un sogno. Il sogno inizia nel cimitero di un campo di battaglia. Un’enorme nube nera si leva dal fondo e lentamente emergono dal terreno figure spettrali: avvolte in bende, zoppicanti, cieche. Questi spettri, disposti in un infinito corteo di morti, riempiono le strade di campagna e si dirigono verso i villaggi, da cui erano partiti per andare a combattere. Vogliono capire se il loro sacrificio è stato utile a qualcosa oppure è stato vano.
Recentemente, il 1° novembre, ho preso parte all’iniziativa promossa dall’Associazione «Varese per l’Italia 26 maggio 1859», che, presso il cimitero varesino di Giubiano, invitava tutti ad un momento di riflessione dinanzi alle lapidi che ricordano i caduti delle guerre risorgimentali e della Grande guerra. Il cimitero di Giubiano è un cimitero monumentale: luogo dell’estremo riposo, certamente, ma anche luogo in cui la memoria del passato si è pietrificata per potersi rianimare in ogni presente, interrogandolo. E in questo luogo non sono raccolte solo le ultime vestigia di uomini illustri, la cui vita è diventata esemplare per aver saputo catalizzare su di sé lo spirito del proprio tempo. Accanto ai corpi dei Carcano, dei Guerzoni, dei Molina, riposano qui i caduti della seconda guerra d’indipendenza, che proprio con la battaglia di Varese ebbe inizio; riposano i caduti della Grande guerra; hanno trovato albergo le vittime dei bombardamenti subiti dalla città nel 1944. Riposa qui anche il corpo di Carla Caroglio, una varesina nata nel 1918, arrestata a Baveno (Novara) e che trovò poi la morte, per la sola colpa di essere nata, nell’eccidio consumatosi a Meina nel settembre del 1943, episodio che segna l’inizio della Shoah italiana.
Dopo la Grande guerra, tutta l’Europa si ritrovò a dover fare i conti con la memoria della morte, con l’enorme montagna di cadaveri, che pesava sulle coscienze dei sopravvissuti. Le società del dopoguerra, come avrebbero metabolizzato la morte di massa? Come avrebbero affrontato e superato le ferite profonde, le perdite, le lacerazioni prodotte da quell’immane conflitto? In che modo avrebbero dotato di senso quella «inutile strage»?
Del resto la Grande guerra fu tale, cioè “grande”, in primo luogo per il numero dei morti che produsse. Solo nel primo mese, la Francia perse mezzo milione di soldati. A Verdun, uno dei luoghi più martoriati del fronte occidentale, tedeschi e francesi persero 300mila uomini per parte. E così anche nella battaglia della Somme, dove persero la vita 200mila francesi, 400mila inglesi, 500mila tedeschi.
Le cifre appaiono spaventose anche nel contesto italiano. Circa un milione furono i soldati caduti in battaglia, a causa delle ferite e delle malattie oppure dopo essere stati fatti prigionieri. Fino all’ultima campagna combattuta sul fronte italiano (i circa 600 chilometri dal confine svizzero fino al mare Adriatico che ci separavano dall’Austria), il sangue versato in rapporto al terreno guadagnato fu persino più abbondante di quello richiesto dai combattimenti sul fronte occidentale.
Sui circa 65milioni di militari mobilitati da tutti gli eserciti, 21milioni furono approssimativamente i feriti e 9milioni circa i morti. A tale ecatombe, si aggiunsero le vittime prodotte, alla fine della guerra, dall’epidemia di Spagnola: oggi si calcola che a partire dal 1918 e nel giro di un paio d’anni questa epidemia procurò tra i 20 e i 25milioni di morti, colpendo prevalentemente giovani tra i 19 e i 25 anni.
L’incontro con la morte di massa, secondo lo storico George L. Mosse, fu forse la prova più difficile che dovettero affrontare le società europee tra il 1914 ed il 1918. L’esperienza del lutto segnò il difficile dopoguerra. Tutti gli Stati, furono impegnati a trovare, in quella ecatombe, un significato più alto che giustificasse il sacrificio e la perdita irreparabile: bisognava cancellare l’orrore; era necessario rendere accettabile un passato intrinsecamente sgradevole.
Ma, a distanza di pochi anni, l’Europa ed il mondo avrebbero dovuto fare i conti con una nuova guerra, che con una nuova e maggiore intensità (per estensione geografica, per numero di perdite, per la qualità delle distruzioni) si abbatté sulle popolazioni ancora provate e segnate dal conflitto precedente. Da quel momento in poi, i caduti in guerra non saranno più solo (o prevalentemente) uomini in divisa. I rappresentanti della «società disarmata», i «civili», inizieranno a pesare in misura maggiore sul computo finale delle vittime di tutte le guerre, combattute a tutte le latitudini. Il XX secolo, che era iniziato nella fiduciosa speranza di una pace perpetua (il premio Nobel per la pace fu assegnato per la prima volta nel 1901), sarebbe diventato uno dei più mortiferi della storia dell’umanità.
Di fronte a queste considerazioni, rischia di diventare imbarazzante la domanda che potrebbero rivolgerci le voci che si levano dai campi di morte. Qual è stato, cioè, il senso del loro sacrificio? A che sono servite le loro vite perdute? In che modo tutta la violenza di cui queste storie, grandi e piccole, illustri e anonime, è stata “utile”? Quale significato pedagogico possono mai avere gli elenchi dei morti in guerra, i monumenti e le lapidi, le commemorazioni di eventi luttuosi?
Non ce la caviamo, non ce la possiamo cavare, tentando di armonizzare retrospettivamente tutto ciò che si è consumato alle nostre spalle. Non possiamo continuamente ingannarci con la ricomposizione a posteriori di una identità collettiva, che, come tutte le identità, collettive o individuali, è il risultato di percorsi non sempre lineari e spesso contraddittori. Non possiamo far finta che, in questo luogo, trovino una sorta di forzata (e ipocrita) pacificazione post mortem il corpo della signora Carla Caroglio ed il corpo di chi imbracciò l’arma che le tolse la vita.
La Storia, lo sappiamo, non ha mai insegnato nulla. L’umanità, ostinatamente, continua a commettere gli stessi errori. La fragilità del mondo in cui viviamo sta lì, drammaticamente, a dimostrarlo.
Eppure, forse un senso possiamo provare a trovarlo. Possiamo cercare ancora di coltivare un po’ di speranza, che risarcisca in qualche modo questi corpi. Tutto sommato, penso di poter affermare che l’innumerevole numero di vite umane che sono state strappate via dalla Storia per pietrificarsi nei luoghi di memoria, non sia stato inutile. Non è stato inutile se penso che, a differenza della generazione dei nostri padri e dei nostri nonni, la nostra generazione e la generazione dei nostri figli non ha dovuto provare l’esperienza della guerra. Da settant’anni, ormai, almeno nel nostro piccolo angolo di mondo, abbiamo sperimentato la possibilità di una vita in pace: il periodo di pace più lungo della storia dell’umanità.
Ci siamo arrivati proprio grazie alle vite che, nelle guerre, sono state sacrificate. Lo disse chiaramente Giuseppe Dossetti, quando, durante i lavori dell’Assemblea costituente, presentò la prima stesura di quello che sarebbe diventato l’articolo 11 della nostra Costituzione: «Lo Stato rinunzia alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli. Lo Stato consente, a condizioni di reciprocità, le limitazioni di sovranità necessarie alla organizzazione e alla difesa della pace». Questo fu il testo messo a punto da Dossetti, che, nel presentarlo in Assemblea, chiosò: «Anche questa norma corrisponde alla diffusa e concorde coscienza di questa dopoguerra».
Quando poi questo articolo fu sottoposto all’approvazione nel corso della seduta del 3 dicembre 1946 (ed il testo non era ancora quello che conosciamo), il socialista Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, spiegò le ragioni di alcune modifiche lessicali al testo originario: «Si tratta – dichiarò – anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione, ha ritenuto che, mentre “condanna” ha un valore etico più che politico-giuridico, e “rinunzia” presuppone, in certo modo, la rinunzia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola “ripudia”, se può apparire per alcuni richiami non pienamente felice, ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra».
Ecco, questa riflessione lessicale, che apriva la porta alla speranza di un mondo definitivamente pacificato, non avrebbe potuto essere condotta se alle spalle non ci fosse stata l’esperienza della morte di massa, i massacri perpetrati nel corso delle guerre che si erano appena concluse.
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