Anche Mattarella ha porto i suoi auguri. Destinatario del colto e cortese omaggio del Presidente della Repubblica l’inserto settimanale della Stampa Tuttolibri, che ha festeggiato i suoi primi quarant’anni. L’appuntamento dura dunque da decenni per i fedeli lettori che, ogni sabato, accompagnano al piacere della colazione la prima occhiata mattutina all’inserto, venuto alla luce l’1 novembre del 1975 sotto la direzione di Arrigo Levi.
In un bell’articolo dello speciale numero per i quarant’anni, Vittorio Messori, allora chiamato dal direttore a “far cultura in tempo di barbarie”, ricorda che facevano parte del gruppo anche Alberto Sinigaglia, onnipresente deus ex machina, Mario Varca, Giorgio Mario Bonini, presto sostituito da Giorgio Calcagno, e altre illustri firme tra cui Nico Orengo e Lorenzo Mondo. A sovraintendere pensava il vicedirettore del quotidiano torinese Carlo Casalegno, “due anni di collaborazione amichevole fruttuosa, poi interrotta nel novembre del 1977 dalle pistole delle Brigate Rosse: il volto devastato da quattro proiettili, tredici giorni di terribile agonia per quell’uomo tanto pacifico quanto coraggioso”.
L’azzeccato inserto nasceva dunque da un manipolo di intellettuali di alto livello in tempi difficili, condizionati da cecità ideologica e segnati dai tragici fatti legati a una lotta di classe sleale.
Ricorda Messori anche la “verità” conformista di colleghi del quotidiano – peraltro molto ben remunerati dai propri editori – lesti ad alzare i calici in redazione di fronte alla colonna di fumo proveniente dall’incendio di un reparto di Mirafiori, appiccato da un gruppetto di ”guerriglieri” benestanti.
Significativa a questo proposito anche la riproposizione, sempre nel numero dei quarant’anni di Tuttolibri, dell’intervista premonitrice di Furio Colombo a Pierpaolo Pasolini, pubblicata proprio alla vigilia della tragica morte dello scrittore regista. Pasolini avvertiva: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani: ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. Siamo tutti in pericolo”.
E affermava come la necessità dell’intellettuale fosse comunque di andare controcorrente.
“L’esempio – ricorda Pasolini – ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto,‘assurdo’, non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no, su in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’ Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppata la macchina”.
Scriveva il direttore Levi nel ’75, nel presentare il primo numero di Tuttolibri – e in parte quell’editoriale sembra essere stato appena scritto – : “Questo Paese è attraversato da inquietudini profonde, è scontento di sé, agitato da tensioni e da aspri conflitti. Ma è anche un Paese più colto e più adulto, che s’interroga appassionatamente su sé stesso, che si giudica spesso impietosamente, ma che vuol trovare strade nuove. E una ricerca difficile si esprime dunque anche nell’ansia di conoscere, e quindi di leggere”.
A quell’ansia di conoscere, rimasta intatta nonostante il prezzo pagato da chi ha avuto il coraggio di dire no, corrisponde ancor oggi la curiosità e la consolazione della lettura: questo era il cibo buono delle parole che si proponeva allora, e continua a proporre, l’inserto letterario torinese.
La lettura online che minaccia la carta stampata e ha rimescolato le carte non ha tolto ossigeno alla lettura tout court e l’uso della tavoletta ha anzi concesso un più agile approccio al libro appresso, così l’interesse per il saggio, la biografia o il romanzo, è andato crescendo.
Pensiamo alle parole consolatorie di Hermann Hesse, premio Nobel della letteratura nel 1946, che a sua volta cercava consolazione e serenità trovandola, oltre che nella parola scritta, nell’arte e nell’ancestrale comunicazione del disegno. Lo dimostrano quei suoi tenui acquerelli custoditi al museo di Montagnola di Casa Camuzzi, sua prima, amata dimora in terra ticinese.
“La piccola tavolozza colma di colori puri non mescolati, e di una forza luminosa limpidissima, era la mia consolazione, la mia roccaforte, il mio arsenale, il mio libro di preghiere, il cannone con il quale sparavo contro la morte maligna. Con essa già mille volte ho esercitato la magia e vinto la battaglia contro la stupida realtà”.
Il segno della parola limpida – il suo colore puro che consola – evocata da Hesse ne “L’ultima estate di Klingsor” è la sola vittoria che resiste nel tempo.
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