Il primo weekend bosino a sostegno dei candidati alle primarie del centrosinistra ha buttato very good (l’è andada bén): brulichìo incuriosito ai punti-propaganda, obesa voglia di sapere, gran desiderio di cambiamento, pazienti attese per apporre centinaia di firme. L’auspicio diffuso è questo, chiaro/semplice/forte: una città così, una Varese così, non funziona. Bisogna pensare all’alternativa, sperando che (1) l’alternativa esista davvero; che (2) si riveli consona alle aspettative; che (3) porti a una mutazione/trasformazione/rivoluzione di sostanza e non solo di forma. Come dire (molti varesini l’han detto, indugiando volentieri ai banchetti promozionali): nel terzo millennio non siamo ancora entrati, e sarebbe finalmente l’ora d’approdarvi e di frequentarlo. Come si può e come si deve.
Lo strumento delle primarie, pur con difetti e indegnità emersi in passato e altrove, appare il migliore pro democrazia. Decidere d’usarlo qui, tra di noi, dove non vi si era mai ricorsi per un’elezione municipale, è una scelta saggia, lungimirante, al passo col tempo dell’insofferenza verso le onnipotenze dei signori delle tessere (di partito). A proposito di partiti: il Pd avrà pure – li ha di certo – un sacco di difetti, ma nella circostanza (e magari in ragione d’un cumulo di circostanze) ha optato per una precisa, apprezzata, utile virtuosità. A proposito di virtuosità: senza l’incalzare della mobilitazione civica, e cioè del comitato Varese 2.0, essa si sarebbe affermata lo stesso? Forse ni, magari no. E dunque al comitato Varese 2.0 vanno riconosciuti coraggio, tenacia, entusiasmo indispensabili a costruire un’occasione di buona politica. Esiste anche la buona politica, accanto alla cattiva politica, e se ce n’eravamo dimenticati, ecco l’opportunità di rinfrescare la memoria moltitudinaria.
Perciò il momento è felix. Tira aria incoraggiante. Nel futuro s’avvista un orizzonte mobile invece che un’immobile orizzontalità e cogliere quest’attimo al meglio – evitando i peggiorismi da deriva agonistica – sembra più un dovere che un diritto. Nell’interesse (a) di quanti guardano con simpatia a sinistra, ma pure in quello (b) di quanti preferiscono occhieggiare a destra: se un simile cimento impone ai gareggianti di manifestare spirito innovatore e idee fresche, non c’è infatti chi non se ne avvantaggi, classe amministrativa e società civile. Se non alle brevi, certo alla lunga.
I candidati alle primarie del centrosinistra si sono assunti – onore a loro – una responsabilità importante, e corrispondervi significa sfidarsi all’insegna del realismo. Cioè: badare al presente senza perdere di vista il futuro. I rivali (sodali) di oggi dovranno stare insieme domani, quando andranno affrontati gli avversari (sodi) del centrodestra per la poltrona numero uno di Palazzo estense. Questo vuol dire parlarsi, incontrarsi, accordarsi. Ovvero: stringere un patto prima e non dopo il risultato delle urne del 13 dicembre, con l’impegno dei perdenti di mettersi al servizio del vincitore che proverà a diventare sindaco. Senza un tale animo di squadra, la partita che conta rischia di diventare la partita che non conta niente. Secondo una cupa tradizione che, a sinistra e dintorni, dura da venticinque anni.
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