Sarà anche per la sensazione di perplessità accentuata che la Open si porta dietro non consentendo ai propri tifosi valutazioni troppo ottimistiche sul suo cammino, che non può non tornare alla mente com’era diverso il basket dei tempi addietro rispetto all’attuale.
Precisiamo: il ragionamento non vuole riferirsi ai pur eclatanti successi della squadra locale dei tempi andati ma proprio al differente tipo di gioco che si praticava.
A ben vedere all’attuale gioco esclusivamente individuale poteva più essere paragonata la manovra della “vecchia” Pallacanestro Varese che non quello del tutto differente di Ignis, Mobilgirgi e, comunque, di tutte le squadre impegnate nel campionato dei tempi successivi.
La prima maniera, appunto, fatta un po’ come ora, di ispirazioni individuali con assoluta assenza di “giochi” se non per lasciare posto quanto a difesa alla “a uomo” o ai vari tipi di zona.
Niente schemi – si diceva – che a Varese (o meglio nel basket europeo) comparvero in epoca ben successiva. Da noi, in particolare, con l’arrivo, come allenatore, di Vittorio Tracuzzi assoluto assertore del basket “manovrato”.
Lo rivediamo in particolare, accosciato sul parquet della Casa dello Sport, a muovere monetine circondato dai giocatori che dallo spostamento delle monete dovevano memorizzare gli schemi.
Giocatori non tutti convinti della novità con addirittura qualche contestatore come Sergio Marelli – capitano della squadra – per nulla disposto a sostituire le sue avanzate verso il cesto avversario al galoppo in pieno palleggio.
Con le due differenti visioni di gioco allenatore e capitano approdarono anche a più di uno scontro verbale fino a che non si giunse a quello definitivo che portò Marelli a staccarsi dalla squadra per fare rotta su Cantù.
Era, quello degli schemi, dunque, un altro basket rispetto all’attuale ma, in tutta sincerità, degno di qualche nostalgia.
Pur dandosi atto – senza mezzi termini – che l’attuale interpretazione del basket basato su forma fisica ed individualità sia sicuramente più vicino a quello praticato negli USA – da sempre considerati patria di questo sport- esiste una ragione ben precisa che depone per la preferenza (almeno da parte di chi scrive) per il basket dei “giochi programmati”.
Il punto è che gli interpreti della pallacanestro oltre oceano sono sostanzialmente tutti ottimi campioni che si esprimono a livelli ben diversi rispetto a quelli che attualmente sono in forza al nostro campionato il più delle volte di doti mediocri e, sempre, nettamente inferiori ai campioni del basket d’oltreoceano.
Insomma il basket del momento ha preso il posto di quello “geometrico” in quanto basato fondamentalmente su doti atletiche quelle – per precisare – che esaltano il pubblico per dar vita a schiacciate o a rimbalzi fatti da voli più che da salti; da corse indiavolate, da prodezze in cambi di mani o nella marcature. È un basket che lasciato da parte il ragionamento vive di folclore fisico a 360 gradi. È questo quello che riesce ad ammaliare ed entusiasmare un pubblico.
In poche parole l’attuale basket avrebbe un senso se giocato in maniera diversa (ben più evoluta) da quello che si fa ora in Italia.
Così stando le cose un pizzico di nostalgia dell’altro basket può essere accettata e più che giustificata.
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