Quando il potere si radicalizza e si avvita su se stesso, perdendo di vista il confronto democratico, diventa un pericolo per chi è costretto a subirlo. Non per nulla i totalitarismi nascono e si confermano quando chi comanda perde di vista le leggi dello stato e si convince di essere l’unico garante delle libertà democratiche.
Di solito si parte da una visione oggettiva della realtà, per poi ritagliarsi ampi spazi di soggettivismo radicale, senza pensare che esistono anche gli altri, quelli che ci hanno consegnato il potere sancito da libere elezioni, un potere che è servizio alla nazione, capacità di saper rispondere in modo adeguato ai bisogni dei cittadini e alle promesse fatte in campagna elettorale.
Da un po’ di anni a questa parte anche la nostra bella democrazia ogni tanto si gioca la sua architettura democratica, come se la Costituzione fornisse l’alibi per cambiare le carte in tavola ogniqualvolta se ne sentisse la necessità. Ed ecco che ci ritroviamo presidenti del consiglio non eletti dalla popolazione, catapultati nell’agone governativo. Ci si domanda se tutto questo appartenga alla cultura popolare della nostra democrazia repubblicana o se non sia un cordone ombelicale mai reciso di vecchi regimi. E pensare che molti si riempiono la bocca con gli stigmi del linguaggio costituzionale, esibito ogniqualvolta si tenta di giustificare a tutti i costi un’idea o un’azione individuale o di parte. I vizi ormai sono di tutti.
Viviamo un’insolita anarchia totalitarista, che si colora di sfumature a seconda delle necessità. In molti casi non siamo più capaci di agire sulla base dei ruoli che il sistema societario ci riconosce. Viviamo alla giornata, legandoci per opportunismo alla necessità di dover dare risposte ai bisogni del cittadino. Chi gestisce il potere lo fa spesso in modo autonomo e personale, come se fosse la carta vincente del giocatore di turno. È la storia di un potere che si neutralizza, che non evolve, che non si realizza, che gira su se stesso impedendo agli osservatori/utenti di valutarne capacità gestionale e attuativa, un potere che è sempre più legato anima e corpo alla sfera egoistica dell’azione politica di parte. È anche sul rispetto della teoria istituzionale che si gioca la credibilità di uno stato e quella di una nazione, è sul come si affrontano i problemi, la loro dimensione pubblica, sugli effetti che producono, sulla capacità di analisi e di valutazione.
L’esercizio del potere è parte fondamentale delle dinamiche democratiche, vitale nell’esercizio dell’attività costituzionale. L’Italia in questi anni ha perso l’aderenza democratica all’apparato istituzionale, fa un po’ quello che vuole. Le riforme hanno il sapore di un impegno parziale, di una visione ridotta della realtà, al punto che nella maggior parte dei casi si trasformano in istanze imbonitive, create per dare risposte immediate, elargite con l’idea di dimostrare varie forme di protagonismo politico.
Lo stesso vale per l’attività parlamentare, sempre più vincolata agl’interessi di partito che alla vita del paese. Rivedere la dimensione del potere, le sue modalità d’uso, la sua capacità di cambiare in meglio la realtà è fondamentale, per evitare che il paese scivoli gradualmente verso una pericolosa radicalizzazione dei rapporti di sistema. Ma per fare questo è necessario che si prepari una classe politica adeguata, cosciente del ruolo istituzionale dello stato e del suo profilo democratico, in grado di avere una visione ampia e approfondita dei bisogni e delle necessità, capace di intraprendere azioni politiche costruttive non solo in campo nazionale, ma anche internazionale.
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