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Stili di Vita

EXPO, COS’È MANCATO

VALERIO CRUGNOLA - 30/10/2015

Expo si accinge a chiudere i battenti. Le previsioni catastrofiste sono state smentite, le presenze hanno superato le attese, le ricadute per Milano e l’Italia sono state apprezzabili. Per come è stata interpretata dai visitatori (i veri protagonisti passivi dell’«evento»), Expo si è rivelata una grande kermesse globalpopolare oltre che nazionalpopolare: di per sé non è un male. Certo, irrita la riproposizione di stereotipi non più veri, come l’esaltazione del paesaggio del Bel Paese, in verità ormai offeso, irreversibilmente ferito quasi in ogni dove, cementificato o in abbandono: il lodevole padiglione del Ministero dell’Ambiente, che almeno – pur aderendo a quello stereotipo – non ha occultato alcune gravi criticità, è la rondine che non fa primavera.

Certo, le code per assaggiare le patatine fritte al padiglione del Belgio o la presenza di McDonald’s e della Coca Cola lasciano perplessi. Ma se le presenze incongrue fossero state il prezzo da pagare per facilitare un’azione capillare di sensibilizzazione sui temi dell’alimentazione e dell’ambiente, le si potrebbe tollerare.

Ho il sospetto che il tema dell’esposizione, la sua ragion d’essere, non abbia avuto un ruolo rilevante nel suo successo. È lecito chiedersi quanto le sollecitazioni della Carta di Milano – peraltro assurdamente non disponibile in veste cartacea, nonostante la sua importanza e brevità – siano state raccolte e fatte proprie dai visitatori. Ed è anche lecito immaginare che le persone accorse per partecipare al «grande evento» non abbiano in verità potuto o voluto approfondire il problema di «nutrire il pianeta»: lasciato solo dall’assenza di un’impostazione così forte, compatta e coerente da poter indirizzare le attese dei visitatori, distratto dal richiamo mediatico dell’evento, stordito da un messaggio incongruo – la promozione del Made in Italy nel settore enogastronomico, salumi seriali inclusi –, il grande pubblico ha potuto imbattersi solo casualmente nelle complesse questioni ambientali, economiche e sociali che gravitano attorno alla sfida di migliorare la qualità e la quantità dell’accesso al cibo cessando nello stesso tempo di distruggere, in nome di interessi che generano solo diseguaglianze, gli equilibri ambientali, la biodiversità, i beni comuni come l’acqua e le tante culture che vengono coinvolte nelle dinamiche alimentari locali e globali.

Il suggestivo filmato visibile nel Padiglione Zero non può, da solo, aver supplito a questa distorsione nel messaggio. Il discreto pubblico negli spazi allestiti da Eataly, apprezzabile impresa commerciale per la vendita di alimenti di qualità, non compensa la scarsa affluenza a quelli di Oxfam, la più grande e operosa organizzazione non governativa di cooperazione, o della Caritas Ambrosiana, o delle periferiche presenze degli operatori del mercato biologico o equo e solidale, peraltro poco significative e fagocitate da un grande emporio per la vendita di prodotti, non solo alimentari.

La distorsione più grave è venuta dai clusters destinati ad alcuni paesi poveri. Nessuno spunto di riflessione sulle diseguaglianze locali e globali o sulle cause e gli effetti della miseria; giusto un po’ di folklore per sprovveduti turisti globali, e tanti prodotti di finto artigianato, in verità ormai componente non irrilevante dell’industria globale e massificata di souvenir.

Le lunghe e irragionevoli code – per evitarle sarebbe bastato un sistema di prenotazioni informatizzate per fasce orarie – hanno fatto il resto. Molti hanno dovuto accontentarsi di vedere padiglioni minori, o di passeggiare tra le architetture, in qualche caso di assoluto pregio, anche metaforico. Il grande parallelepipedo aperto del Brasile con la rete delle culture, l’alveare britannico che allude al lavoro cooperativo per custodire il pianeta, la forza didattica del padiglione svizzero, le mirabili ceste della Malesia e, soprattutto, il capolavoro di Norman Foster per gli Emirati Arabi Uniti, che evoca una celebre installazione di Kapoor, avrebbero meritato di essere conservati, molto più del non certo eccellente Padiglione Italia o dell’Albero della Vita, una pacchiana scopiazzatura.

Non sono mancate tuttavia occasioni per riflettere. Ne cito solo tre per il loro impatto emotivo: alcuni messaggi possono essere accolti più facilmente con un linguaggio intuitivo che non con cifre e discorsi. La scultura esposta nel padiglione della Caritas Ambrosiana – una grande pila di monete da un centesimo che muta assetto in rapporto alla distribuzione del reddito per quote di popolazione – ha saputo spiegare la diseguaglianza meglio del libro di Piketty. I non molti che hanno potuto ammirarla ne sono usciti scossi. Lo stesso vale per le torri del padiglione svizzero, sorta di silos riempiti di mele, caffè, sale e acqua a disposizione del consumo dei visitatori: «Potete prendere tutto gratuitamente e nella quantità che volete. Ricordatevi che ciò che prenderete voi non ci sarà per gli altri». Alla chiusura di Expo acqua e mele saranno esaurite, ma resterà un quarto del caffè e la metà del sale. Questo elementare insegnamento sulla finitezza delle risorse, sulla condivisione, sullo spreco e sulla selettività e il costo dei consumi in situazioni di opulenza o post-opulenza, è rimarchevole proprio perché chiede a ciascun visitatore di riflettere sui propri comportamenti alimentari. Erano queste le strade da battere. L’ammirevole sforzo degli ideatori del bel padiglione angolano per mettere a disposizione dei visitatori un percorso interattivo tanto completo quanto complesso non ha avuto la stessa efficacia proprio perché ha seguito un’altra strada, quella analitica e cognitiva; al contrario, le centinaia di foto di donne che hanno ruoli importanti nella società angolana hanno avuto un forte impatto. Tutti, guardandole, potevano capire il messaggio: abolendo le differenze di genere e ponendo fine all’asservimento della donna tipico delle società africane e islamiche, si crea sviluppo sociale e crescita umana. Pur in un quadro commerciale, qualche spunto di riflessione è venuto da Slow Food e da Coop, con la sua simulazione di un consumo informato e digitalizzato. Utili anche alcuni incontro. In uno ho appreso che la produzione di un hamburger costa 120 litri d’acqua, e quella di un solo foglio formato A4 ne esige 10! Ma ad ascoltare la conferenza eravamo in meno di quaranta.

Poche rose, insomma, e tante spine, forse troppe. Per chi come me si aspettava da Expo una spinta consistente in direzione del cambiamento degli stili di vita, la delusione è forte. Ma forse, per misurarne la consistenza, occorre aspettare l’oscuro lavorìo del tempo, senza prendere come parametro la fascia più riflessiva dei visitatori, già sensibile e certo minoritaria, bensì la fascia più numerosa, meno dotata di strumenti informativi e meno pronta e sollecita a imboccare la via di comportamenti sostenibili. Se anche solo metà dei visitatori dovesse essere tornata a casa con qualche barlume di consapevolezza critica circa la catastrofe ambientale che ci minaccia, il successo si rivelerà enorme anche sul piano qualitativo.

La lezione che ne ho tratto è una sola. Eventi come questo non possono sfuggire alla mediatizzazione globale. Ma devono poter prevenire lo snaturamento del loro messaggio. Una minore attenzione alle logiche di marketing, una maggiore essenzialità e un accurato studio dei linguaggi più efficaci per consentire a milioni di visitatori di cogliere i problemi sul tappeto sarebbe stata, e dovrà essere in futuro, assolutamente necessaria. Perché possano davvero contribuire cambiare gli stili di vita e con essi gli ordinamenti socioeconomici che stimolano comportamenti sbagliati e dannosi, simili eventi necessitano di eticità, di una coerenza rigorosa e di uno sforzo inventivo. Questo è mancato, purtroppo, a Milano. E gli organizzatori, gli organi di informazione e il governo, preoccupati del successo di pubblico e del marketing, non hanno certo dato una mano perché le cose andassero nel verso giusto.

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