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Attualità

RITORNO DELLA PIETÀ

EDOARDO ZIN - 30/10/2015

Ed è arrivato anche novembre. Gli alberi ormai spogli non nascondono più la vista del lago e il Campo dei Fiori è un susseguirsi di tronchi nudi che si alternano al violaceo dei castagni, al bianco dei pioppi, a foglie brune, gialle e rossicce. La mattina si sveglia nella nebbia umida e amara e alla sera la luna veleggia dall’alto.

Novembre è il mese tradizionalmente dedicato ai morti. Fa riflettere questa coincidenza: mentre la terra arata di fresco accoglie il seme che, apparentemente morto nell’inverno, germoglierà a primavera e ci donerà erba, fiori, raccolti e piante, così i corpi o le ceneri dei nostri cari, affidati pietosamente al grembo della terra, diventeranno sementi per il futuro, quando un giorno risorgeranno. Allora sarà l’inizio di una nuova vita per tutti.

I cimiteri in questi giorni si affollano di persone che si recano a deporre il fiore del ricordo e ad accendere un lume come si fa con le immagini dei santi.

Quand’ero bambino, i miei genitori mi portavano al cimitero. Era un’occasione anche per ritrovarmi con i miei zii e i miei cugini. La mamma mi invitava a fare il segno della croce e a mormorare una preghiera per i nonni, senza dimenticare i miei compagni di giochi morti sotto un terribile bombardamento che aveva colpito il quartiere dove abitavamo. Con i miei cugini gareggiavamo, scrutando la data della nascita e della morte, a calcolare l’età in cui erano deceduti i nostri congiunti e a cogliere i rapporti di parentela tra l’uno e l’altro. Non avevamo paura della morte, confortati, forse, anche dal fatto che, rientrati a casa, ci aspettavano scoppiettanti caldarroste!

Ritorno spesso al camposanto dove riposano i miei cari. Mi sorprendo nell’imbattermi in una tomba che accoglie una persona conosciuta durante la stagione della mia giovinezza: mi fa riflettere. Penso che devo andare incontro alla morte non con tristezza, ma con la stessa gioia con cui attendevo la nascita di un figlio. Mi rattrista, al contrario, vedere quel luogo quasi deserto: i bambini e i giovani sembrano spariti. Tra le tombe e gli asettici loculi si aggirano soltanto anziani.

In un momento in cui a parole ci si affanna per ricercare le nostre autentiche radici e si enfatizza la nostra identità, i giorni dedicati ai morti sono stati sostituiti dai macabri riti di Halloween. È un modo, si dice, per esorcizzare la paura nei più piccoli e nei grandi la drammaticità dell’incubo della morte, alla quale non si deve pensare, credendo così ingenuamente di liberarci dalla sua realtà voltandole occhi e spalle, mentre la televisione ci porta in casa la “morte industriale” dovuta agli innumerevoli conflitti che affliggono il pianeta.

Viviamo immersi nella cultura dell’amnesia, i sociologi sostengono che i giovani sono “senza memoria” perché non è stata trasmessa loro un’eredità. Forse è vero: abbiamo dato loro tanto benessere, ma poco tempo per pensare e pochi spazi in cui condividere gioie e dolori. Eppure, come recita un aforisma egiziano, “l’esempio degli antenati è come una bisaccia per il giovane viandante”.

Sembra che ai giorni d’oggi si ricerchi la felicità nell’oblio: le conseguenze di questa dimenticanza le possiamo constatare nello sfacelo che c’è anche nei rapporti di parentela o nella mancanza di pietà verso i morti ignorati, magari perché colpevoli e disprezzati, dimenticando che i morti sono tutti buoni perché hanno incontrato la misericordia del Signore.

Se la memoria storica è fondamentale per tenere desta una civiltà, nell’esistenza degli individui il culto, il rispetto, il ricordo di chi ci ha preceduti sono tesori di valori e di sentimenti ereditati da vivere quotidianamente, in maniera che il presente diventi custodia per non perdere nel cuore il loro affetto.

Ma il ricordo per chi ci ha amati non si edifica solo con la memoria, ma con il presente colmo di atti integrati bene. Visitare i sepolcri dei nostri cari sarebbe senza senso se noi non li custodissimo nel nostro cuore che li ha amati e non fossimo certi di contemplarli nella Resurrezione. Vivere infatti non è che una preparazione all’incontro definitivo con loro e con Dio.

Ho letto recentemente la biografia di un noto intellettuale che si dichiara non credente. Egli si interroga sul senso della vita e della morte e finisce per affermare che “la morte non è la fine, ma un compimento”, un approdo, ma non l’arrivo.

È così: nel tempo, che è l’ambito in cui siamo chiamati a operare, prepariamo il nostro futuro che va oltre le frontiere della morte.

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