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Stili di Vita

OGNI LIMITE HA LA SUA PAZIENZA

VALERIO CRUGNOLA - 23/10/2015

Un campione di pazienza: Giobbe

Un campione di pazienza: Giobbe

L’odierno contrarsi del tempo che possiamo o vogliamo dedicare a noi stessi ci costringe all’ansia del fare, del godere, dello sperimentare, dell’ottenere. Nello scemenziario collettivo pochi modi di dire sono più inflazionati, banalizzati e bistrattati del Carpe diem oraziano. L’istante, nella sua pretesa irripetibilità, ha preso il posto dell’opportunità; si deve afferrare, non cogliere. Per millenni la visione dell’impermanenza e della precarietà delle cose ha spinto gli esseri umani a ridurre le pretese per assumere un’attitudine minimalista; oggi invece le alza oltre ogni legittima aspettativa. Da ogni attimo fuggente pretendiamo sempre il massimo. O almeno così ce la raccontiamo. La percezione dell’infinitesimale ha preso il posto della lentezza, della lunga durata. Intrappolati in una logica performativa, teniamo sempre pigiato il pedale dell’acceleratore della nostra vita, anche nelle curve più pericolose lungo la strada dell’esistenza. L’ansia è nemica della pazienza; per questo ne è letteralmente l’opposto, ciò che le si contrappone, che ne causa la continua corrosione, il rapido oblio e l’inattualità. Esito un secondo in più a scattare al semaforo, e già qualcuno da dietro mi strombazza nervoso. Nel nuovo computer percepisco la maggiore velocità; se torno ad impiegarne uno più vecchio, quel minuscolo istante in più mi irrita. La voglia di guadagnare tempo – un guadagno illusorio e di bassissima qualità – nasconde la nostra paura del vuoto. Abbiamo reagito al senso di vuoto nel tempo intermedio tra il presente e il futuro affievolendo la nostra capacità di differire, l’arte di prendere tempo.

La pazienza è stata inaridita, persino quasi prosciugata, dalle forme del vivere contemporaneo. Il fatto è che pochi le prestano considerazione e la ritengono ancora degna di apprezzamento. Questo stato di abbandono dipende anzitutto da alcune confusioni, da cui è bene ripulire il campo. La pazienza non è affatto una capacità di adattamento, una passiva sottomissione agli altri o alle avversità della sorte, un atteggiamento rassegnato e remissivo, arrendevole o pigro, una manifestazione di disimpegno, qualcosa di comparabile a un’abitudine, a un’arma di difesa e a una strategia di sopravvivenza, quasi fosse un callo che a suo modo, pur infastidendo e qualche volta arrecando brevi e intensi dolori, protegge il piede o la mano da dolori peggiori. Nemmeno è una forma di astuzia, di dissimulazione, come fanno gli animali acquattati in attesa della preda. La pazienza non è pretenziosa, ignora la superbia, l’invidia e l’ira come anche l’accidia. Non è nemmeno una volizione a bassa intensità, debole, fievole, che affida la sua realizzazione alla sorte, o un incedere guardingo e prudente, tenendo un profilo basso. Mentre la rassegnazione è una forma di connivenza, di assuefazione, di perdita della fiducia nelle proprie risorse o di messa ai margini nelle periferie dell’esistenza, la pazienza è stata a torto considerata – contrariamente al proverbio che la associa ai «forti» – la virtù di sopportazione dei deboli, di chi è escluso dai flussi di una vita competitiva e rischiosa, frenetica e sincopata. Secondo Rousseau, «la pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce». È probabile che i più preferiscano evitare l’amarezza prolungata piuttosto che gustare in un momento indefinito la stabile dolcezza del frutto.

L’etimologia questa volta ci inganna: il termine allude al patire, a uno stato di sofferenza diluito nel tempo, a una condizione cronicizzata di malattia. La sua principale caratteristica è all’opposto la fermezza e la tempra del carattere, che si traduce nella saldezza emotiva, nella costanza della scelta compiuta e nella determinazione razionale a non recedere dalle proprie intenzioni, difendendone la libertà dallo sconforto e dal pessimismo che discende dallo scoraggiamento e dal logoramento interiore che ne consegue. Non è dunque tanto un sopportare, un sottostare, ma un portare con noi il gravame dell’obiettivo per serbarlo, in modo da sovrastare ciò che ci opprime, sia pure in una lenta marcia su terreni impervi e in parte ignoti. Leopardi associa la pazienza a un eroismo autentico perché antieroico: «La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza di eroico». Ed è perciò anche la più coraggiosa, benché molti la scambino per vile. Più che dei forti (la forza non richiede affatto coraggio), la pazienza è semmai la virtù dei giusti sofferenti, come Giobbe, dei saggi che non sfuggono il calice del dolore, senza curarsene, per non farsi abbattere fino a perdere di vista la meta. È dunque una peculiare forma di fedeltà a se stessi, ma altresì verso gli altri, perché non siamo pazienti soltanto nei confronti degli altri, ma altresì per gli altri. Vi è un sapore solidale, confidente, oblativo, generoso, amorevole in questo aspetto altruistico della pazienza. Chi ama sa attendere l’andatura dell’altro, e intanto accudire in silenzio, senza chiedere, senza forzare.

La pazienza si manifesta in tre modi distinguibili solo in sede logica: la perseveranza del volere, la lungimiranza della prospettive e del discernimento, la sopportazione dei mali presenti. Essa unisce in sé forza d’animo, fiduciosa attesa e capacità di resistenza; costituisce un’aspettativa positiva e pacata, un’accettazione benevola, ma non per questo ossequiente e rinunciataria, della propria condizione presente. In una parola, pertiene all’attività, non alla passività; è un’azione, non una reazione adattiva. In quanto virtù, oltre che come predisposizione del carattere, la pazienza è un’istanza consapevole di autogoverno, di libertà e di autocontrollo rispetto al dolore e agli eventi che sembrano soverchiarci fino a piegarci. La volizione di chi è paziente è forte, non blanda, come lo è il desiderio retrostante; ci sottrae allo stato di necessità, non ci piega ad esso.

Come tale, la pazienza – che esiste nel suo esercizio o, se preferite, che è (come vuole Tommaso d’Aquino) la condizione potenziale della virtù della fortezza – esige equilibrio interiore, saldezza d’intenti per temperare lo sconforto, capacità di tollerare e di reagire, senso del limite, propensione a valutare e a discernere attese e volontà. Ha ragione un noto filosofo napoletano, Antonio De Curtis, là dove afferma che «ogni limite ha la sua pazienza». Viceversa, al contrario del detto popolare, la pazienza non ha un preciso limite, almeno nel senso erroneo, ma di uso comune, della resa rispetto ai propri obiettivi e propositi. Nessuna sconfitta può considerarsi definitiva; anche se lo fosse, avremmo pur sempre qualcosa da cui ripartire, guardando lontano e reagendo in modo costruttivo all’ineluttabile. Se molti percorsi ci vengono preclusi, non esiste un punto zero oltre il quale non vi sono più percorsi possibili. Il tempo non ha solo una funzione lenitrice: può configurare risposte che non abbiamo potuto trovare o praticare in precedenza. Di qui il saggio invito del Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri… Distrai la tua anima, consola il tuo cuore, tieni lontana la malinconia».

Per Agostino d’Ippona l’impaziente si procura il male da sé. Al contrario, «i pazienti preferiscono sopportare il male per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo». «Nessuno accetta spontaneamente di sopportare ciò che fa soffrire, se non per quello che diletta». Affrontiamo le avversità nella convinzione di poter raggiungere un bene più grande. Agostino distingue la pazienza vera dalla falsa: il criterio di distinzione è dato dall’intenzione, se buona o cattiva, se rivolta al bene o al male (si possono covare desideri di vendetta, di rivalsa…). «La pazienza è socia della sapienza, non schiava della concupiscenza; è amica della buona coscienza, non avversaria dell’innocenza». Come tale, è una virtù dell’anima che si esercita anzitutto su se stessa e di lì sa controllare e disciplinare il corpo, le passioni e le emozioni. E assolve un compito catartico, perché – scrive Gianmarco Pinciroli – aiuta a «ristabilire, in chi la esercita, l’equilibrio rispetto all’eccesso di emotività che naturalmente viene mobilitata, immediatamente, nei diversi casi della vita. Avere pazienza significa riflettere non contro la passione ma per una gestione critica, corretta e mediata della passione». «La pazienza autentica è ad alto tasso di razionalità, è calcolo, è dunque anche prudenza, conoscenza dei rischi, delle possibilità di riuscita».

Come tale, è un movimento lento, che somiglia molto al passo regolare e attento di chi sale in montagna, o persino al tempo sospeso dell’abbandono mistico. Contemplando da lontano la cima o la luce di Dio, già mi approssimo, anticipo la conquista, la pregusto, e insieme resto lontano, e la riuscita del cammino permane incerta; ma so dall’esperienza passata quali sono i limiti e i cardini delle possibilità di riuscita che dipendono da me solo. Coniugando la tridimensionalità del tempo, la pazienza amministra con realismo e cautela le proiezioni utopiche – eutopiche – di cui è nutrita ogni vita; non affretta, ma mentre – come si dice dei ciclisti – «sale con il suo passo», precorre, intravede; tiene a distanza, prende le misure, discrimina e sceglie; e ciò facendo decanta le emozioni di uno stato presente di allerta, e avvia una procedura creativa di conoscenza razionale dei propositi e dei mezzi per realizzarli.

Di pazienza c’è grande bisogno, come di ogni pratica di decantazione e di riflessività. Dobbiamo attendere con pazienza la sua riscoperta, e accreditarla con il nostro esempio.

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