S’è iniziato l’autunno, sono tornate le piogge e l’Italia è nuovamente sott’acqua. Il nostro Paese è quello dove si costruisce di più e si condona sempre.
Una delirante febbre edilizia sta consumando letteralmente l’Italia; in meno di mezzo secolo sono state distrutte grandi aree e ogni giorno vengono divorati cento ettari di terre coltivabili e ambienti naturali.
Il paesaggio, che è una componente essenziale dell’identità italiana, è irrimediabilmente compromesso e i terreni destinati all’agricoltura si sono drasticamente ridotti; in quarant’anni l’Italia ha perso cinque milioni di ettari di terre agricole e tuttora mancano quarantacinque milioni per far fronte ai bisogni alimentari della popolazione.
L’Italia è diventato il terzo Paese dell’Unione Europea per deficit di terre coltivabili e questo deficit ha provocato, insieme alle modificazioni climatiche, l’aumento dei prezzi delle materie prime agricole che devono essere importate in misura del venti per cento dei consumi.
La pianura padana è stata ampiamente cementificata: case, capannoni, stabilimenti hanno preso il posto della campagna e dei boschi, creando condizioni negative di vivibilità (inquinamenti, congestione da traffico). Da Torino a Venezia si estende la “città diffusa” dove sono state cancellate le identità dei centri storici e la varietà del paesaggio. Dal 1950 la popolazione italiana è cresciuta del ventotto per cento mentre la cementificazione è lievitata di oltre il centosessanta per cento.
Tra le dieci province con le maggiori percentuali di superficie edificata svetta quella di Varese, con il ventinove per cento, mentre il mercato immobiliare langue da tempo e gli edifici rimangono invenduti.
Di fronte a questa preoccupante situazione, che incide negativamente anche sul turismo, sarebbe stato apprezzabile che il Piano di Governo del Territorio in gestazione contenesse l’impegno a limitare il consumo di territorio e arrestare l’estensione dell’area urbana. Invece di prevedere l’utilizzo degli edifici dismessi e delle aree abbandonate i Comuni preferiscono rilasciare licenze edilizie facili per fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Ma così i problemi si aggravano e la cementificazione del territorio e la sua mancata manutenzione sono all’origine dei dissesti idrogeologici che, ad ogni cambio di stagione, provocano lutti e danni in seguito a nubifragi e a calamità naturali che, altrove, hanno effetti molto meno devastanti. Dopo trent’anni di malgoverno l’equilibrio ecologico si è rotto; nessuna area può reggere alla perdita di un metro quadrato di terreno cementificato e asfaltato ogni secondo.
Ai nostri politici non dovrebbe sfuggire la realtà dello “sprawl” urbano di Varese che, moltiplicando e allungando i percorsi, rende altresì impossibile il contenimento della caotica viabilità. Il traffico non può essere risolto con i nuovi parcheggi, tanto meno se costruiti nei parchi pubblici; nessun Paese europeo ricorre più a tale soluzione ma programma l’espansione urbana e potenzia i servizi pubblici collettivi.
In effetti molti dei problemi emergenti si sarebbero potuti contenere nei loro effetti se l’espansione di Varese fosse stata pianificata sulla base dell’idea di città sostenibile. Fin dagli anni Trenta i principali Paesi europei, a cominciare dalla Gran Bretagna, hanno programmato lo sviluppo edilizio circondando le città con una fascia verde (“green belt”) che le protegge dagli inquinamenti e ne limita l’estensione mentre la popolazione eccedente è stata destinata alle città residenziali costruite in modo da separare il traffico automobilistico dai percorsi pedonali.
Con un inadeguato controllo la libertà d’iniziativa si è tradotta in una resa incondizionata agli interessi di pochi immobiliaristi che hanno speculato sulla rendita urbana facendo lievitare i prezzi degli immobili.
Gli interventi previsti dal PGT nella zona Stazioni e in piazza della Repubblica non vanno nella direzione di una auspicabile “densificazione” della città; questa dovrebbe consistere nell’utilizzo delle aree abbandonate, dei luoghi dispersi e non invece nella moltiplicazione delle volumetrie degli edificati ubicati nei luoghi nevralgici della città. Modernizzare il mezzo ferroviario non significa costruire le stazioni per i passeggeri ma sostituire, raddoppiare binari e impianti e dotarli di nuovi treni. Invece si costruisce intensivamente laddove si incrociano le principali direttrici del traffico proveniente da Como, dalla Valceresio, dalla Valganna e dal Gallaratese che avrebbe invece bisogno di essere alleggerito.
Intorno alle stazioni esistenti si dovrebbe creare uno spazio attrezzato di intercambiabilità tra il treno e i mezzi pubblici collettivi e privati. Dove sarebbe bastato un razionale e leggero collegamento tra le due stazioni, si ipotizza un mega-edificio di edilizia residenziale che contribuirebbe ad aggravare la circolazione.
Anche la prevista riqualificazione della piazza della Repubblica, la più grande di Varese, deturpata dalla improvvida costruzione del silos sotterraneo, obbedisce ad una logica cementizia; con la scusa di dotare la città di un vero teatro, si riduce l’ampiezza della piazza con nuove costruzioni.
Non è possibile identificare lo sviluppo urbano con la sola crescita edilizia: la città è fatta anche di servizi collettivi, di reti (per l’illuminazione, il gas, la “banda larga”, le fognature che dovrebbero essere distinte tra quelle destinate a raccogliere le acque bianche e quelle nere). Limitare l’attenzione alle costruzioni significa far avanzare una concezione angusta che impedisce ai cittadini la fruizione della città e li riduce a semplici utenti di abitazioni, anche se comode. La città si “arreda” anche con il verde, con i giardini, le fontane e, soprattutto, con il paesaggio che deve coesistere con gli edifici.
Gli strumenti di governo del territorio sembrano ignorare i principi dell’urbanistica che vigono nei più importanti Paesi europei; il degrado non è solo geofisico ma anche culturale.
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