Nel senso letterale, la schiettezza ha a che fare con ciò che, essendo integro, è anche intero (come un vino puro, non mescolato e genuino) e con ciò che è uniforme (come i cipressi «che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar»). Da qui la sua attinenza, nel senso traslato, con il mondo della parola, in particolare con la schiettezza del dire (il «parlar chiaro», il «dire tutto», l’«andare dritto al sodo», il «venire al dunque» con maschio vigore, senza circonvoluzioni e infingimenti). Seppur non per via diretta, la schiettezza rientra così nella complicata costellazione semantica che gravita attorno al concetto di verità e che è costituita da altre nozioni come la veracità (la conformità delle parole con l’intenzione di chi le ha pronunciate), la veridicità (il dire il vero), la sincerità (la disposizione a dire il vero sine cera, senza elementi estranei), l’autenticità (la verificata e comprovata coerenza tra le parole e ciò che riportano), la verosimiglianza (la possibilità che un fatto o un’opinione possano corrispondere alla realtà), l’attendibilità (la fiducia riposta nelle fonti), la franchezza (uno dei toni, particolarmente saldi, diretti e vigorosi dell’argomentazione) e la naturalezza (la spontaneità che dovrebbe inclinarci verso il vero in conformità a un presunto bisogno di sorgiva purezza).
All’interno di questa costellazione la schiettezza, in quanto disposizione dell’animo e come tono diretto e antiretorico dell’argomentazione, si apparenta più strettamente alla sincerità. A questa costellazione semantica attinente la verità ne corrisponde una uguale e contraria attinente il «non vero»: ne sono parte costitutiva e distinta la menzogna, il falso, l’erroneo giudizio, il parlare obliquo o confuso, l’omissione, la dissimulazione e la finzione.
Tutte queste nozioni ruotano attorno a un concetto antico che i greci chiamavano parresia – alla lettera, «la corrispondenza di quel che si dice con tutto quel che si deve dire» –, ossia la struttura di un’argomentazione fondata su una duplice convinzione del parlante: quella di esprimere interamente ciò che veramente pensa; e che questa modalità di approccio al discorso sia più efficace di qualunque procedura retorica, perché manifesta una qualità morale, la dedizione alla verità, che sa conquistare la fiducia di chi ascolta. «È la moralità della persona, la sua qualità individuale, il suo mettersi in gioco fino in fondo – scrive Natoli – a costituirsi come garanzia di verità». La franchezza – un termine che evoca la forza – libera il campo da equivoci, incomprensioni, nascondimenti, impedisce di barare persino con se stessi. Ciò implica la condivisione della medesima moralità da parte di chi è coinvolto in un’interlocuzione. La comunicazione, se vuole essere tale, esige a priori un accordo etico tra i parlanti. Come scrisse Tommaso d’Aquino, «per via dell’onestà ciascun uomo deve all’altro la manifestazione della verità»; «Gli uomini non potrebbero convivere reciprocamente se non fossero in grado di credersi reciprocamente nella mutua manifestazione della verità».
Tra la parresia e l’aletheia – la verità dei greci, «ciò che non si scioglie», ossia persiste oltre la parola e la sua opinabilità – corre però uno scarto radicale perché il convincimento veridico non coincide con «le cose così come sono». In dubbio non è tanto l’oggettività della verità e nemmeno, in ultima analisi, la sua possibilità di afferrarla, quanto la possibilità di affermarla, di comunicarla sempre e comunque, quali che siano le circostanze, agli interlocutori e a se stessi. Ma questa possibilità addita un solo lato della problematicità della parresia. L’altro, più forte e pretenzioso, è costituito dalla sua necessità, ossia dal dovere che ci vincolerebbe alla veracità e alla veridicità. Fu questo il pensiero di Kant allorché respinse come inconcepibile sul piano etico il diritto di mentire per il bene dell’umanità.
Almeno nel senso comune, tutti siamo spontaneamente inclini a ritenere che nulla vi sia di più desiderabile, se non della verità, perlomeno della veridicità, ovvero dell’atto linguistico – l’asseverazione veritiera – che concretizza la sincerità. La sincerità ha una funzione regolativa: nessun ordinamento sociale potrebbe reggersi se tutti fossimo inclini al «dare falsa testimonianza», o anche semplicemente ad occultare qualcosa. Ogni fiducia verrebbe meno, e approderemmo a un regno dominato dall’incertezza. Se ne dovrebbe concludere che la sincerità, la veridicità e tutte le altre componenti della costellazione del «vero» siano sempre desiderabili, mentre tutte le componenti dell’opposta costellazione del «non vero» dovrebbero essere sempre indesiderabili e lesive, se non proprio dell’ordinamento sociale, quantomeno delle relazioni interpersonali.
In realtà le cose non stanno così: la sincerità, nella sua pretesa di rendere un servizio alla verità, è ambivalente, perché non adegua appieno altre istanze vitali che rendono invece un servizio alle relazioni affettive – come l’amore, l’amicizia o la solidarietà – e al rispetto degli altri. Specie se accompagnata da un eccesso di schiettezza, la sincerità può ferire, spaventare, mettere a disagio, apparire un’invasione indebita o semplicemente occasionare dei fraintendimenti, e in ogni caso provocare reazioni che – all’opposto di quanto desiderato – impediscono la comunicazione e la mutua comprensione anziché facilitarla.
La piena emotiva che la schiettezza suscita in chi ne è investito dirotta l’orientamento del confronto dal desiderio di conoscere il vero in vista del bene alla volontà di essere in vista dell’esercizio di un rapporto di forza in chi parla, e della propria integrità in chi ascolta. Se la fiducia viene meno, se la forzatura appare un minaccioso segno di ostilità, di acida inimicizia e di arrogante mancanza di riguardo, l’equilibrio dialogico finisce circostanze contradditoria e controproducente, e non solo perché la verità, come recita un proverbio latino, debba guardarsi dall’odio.
Il pensare per contrari concepiti come assoluti finisce per velare una gamma di possibilità intermedie che lo schema bipolare tralascia. È questo il caso dell’opposizione tra verità e menzogna: e l’esempio più semplice di questo oscuramento è il segreto. Soprattutto, i due opposti non sono neutri, ma affettivamente connotati: tanto la verità e la sincerità quanto la menzogna e l’ipocrisia possono risultare benevole o malevole, o anche l’uno e l’altro insieme. Questa considerazione giustifica la distinzione proposta da Jankélévitch tra la veridicità, moralmente indifferente, la veracità, motivata da una buona intenzione, e il verismo, che per il suo carattere radicale e per le sue oscure intenzioni costituisce la degenerazione della veracità.
La sincerità è dunque, riprendendo il felice ossimoro che dà il titolo a un bel libro di Andrea Tagliapietra, una «virtù crudele». La sincerità e la menzogna, la schiettezza e la dissimulazione sono strategie esistenziali che esigono la phronesis aristotelica, la sottile saggezza comportamentale che tutti possono apprendere ed esperire alla «scuola della vita», ma che non può mai adire a confini certi nella sua applicazione, lasciando spesso spazio a un largo margine di imperscrutabilità, di incertezza e di indecidibilità.
Se è così, benché mantenga il proprio valore, la schiettezza va impiegata con prudenza e circospezione. La sincerità e la schiettezza devono essere selettive. Il loro esercizio richiede una capacità di intuizione circa le circostanze in cui si attua la comunicazione e i feedback che essa può suscitare; e questa a propria volta esige una particolare capacità di concentrarsi sull’altro, di prestargli attenzione, di leggerne i pensieri e le emozioni, di mantenere il microclima di una relazione non bellicosa e affettivamente connotata. La schiettezza è una forma di sintonia della parola con il cuore, e questo le conferisce un afflato etico, ma non sempre è necessaria e desiderabile. Ovunque uno dei parlanti sia in uno stato di afflizione, conviene ammorbidire le parole; solo in presenza di una serenità reciproca, la luminosa e trasparente semplicità della schiettezza può dispiegare i suoi esiti migliori. Questo schematico suggerimento è tanto più valido oggi rispetto al passato, dacché ogni relazione che non sia banale tende a trasformarsi in rapporto di forza e di potere. Per fare buon uso della schiettezza, occorre disarmarla.
Resta ben fermo, però, che proprio per poter convivere nella fiducia e nella sicurezza e per poter adempiere al meglio delle possibilità ai propri ruoli nella famiglia, nel lavoro, nelle relazioni e nell’esercizio della cittadinanza, ciascuno di noi ha il dovere di impegnarsi a conoscere la verità, e a questo fine gli è lecito attendere e pretendere dagli altri la loro sincerità, ricorrendo in caso al vigore della schiettezza e della franchezza.
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