Ventitré anni dopo, quasi un quarto di secolo dalla fine delle guerre mondiali e dall’avvento del fascismo e del comunismo, il mondo occidentale, sotto la spinta dei movimenti giovanili, fu sul punto di esplodere. Da Berkeley a Parigi i giovani contestarono nelle piazze, nelle università e nelle scuole, l’assetto autoritario dei modelli di società fordista che erano sopravissuti ai conflitti; il loro carattere gerarchico e il residuo di privilegi a favore delle classi dirigenti erano divenuti insopportabili.
La protesta veniva però da lontano, la guerra era stata combattuta in nome degli ideali di libertà che però non avevano trovato realizzazione in strutture più egualitarie e democratiche. Le distruzioni belliche e la necessità di uscire dalla povertà avevano distolto l’attenzione sulla permanenza di situazioni di ingiustizia e sulla sopravvivenza di un assetto fortemente classista della società; il raggiungimento di un grado superiore di benessere e la vasta scolarizzazione mai vista prima diedero alle masse la consapevolezza e la volontà di cambiamento. Anche il Concilio Vaticano II, appena concluso, stimolò il desiderio di novità e, difatti, gli episodi contestazione del mondo giovanile cristiano precedettero la universale ribellione giovanile.
La fiammata nuovista si esaurì nel giro di un manciata di mesi, salvo che in Italia dove si prolungò per un’altra decina di anni con esiti del tutto diversi dalle intenzioni originarie.
La grande illusione del Sessantotto era quella che la politica potesse cambiare radicalmente il mondo e la vita, consentendo alle persone di prendere in mano il loro destino: in effetti vi fu una mutazione antropologica, furono introdotti diritti fondamentali ma sul piano politico e ideologico non cambiò nulla; le istituzioni e i partiti non seppero o non vollero accogliere le critiche dei contestatori e avviare un’azione riformista.
Senza il movimento di contestazione non avremmo avuto la post-modernità; la cultura e il costume non sarebbero diventati appannaggio delle masse. Prevalsero tuttavia forme di individualismo esasperato, è subentrato un nuovo e più dinamico concetto di cittadinanza ma il vero punto debole della rivolta giovanile è stato l’incapacità di produrre una progettualità politica all’altezza delle aspettative. Il Sessantotto, nel suo complesso ha avuto un carattere antiautoritario, ma in assenza di un progetto di società il movimento riformista si esaurì lasciando però sopravvivere il settarismo gruppettaro e la violenza omicida sostenuta dall’idea velleitaria di fare la rivoluzione in Occidente.
La lotta armata venne dopo, negli anni Settanta, come una degenerazione nell’estrema sinistra e andò in senso opposto agli impulsi originari: il Sessantotto fu una protesta libertaria di massa che cambiò gli equilibri sociali e il modo di pensare della gente, mentre i gruppi armati erano settari, elitari, militarizzati, isolati dal contesto sociale. Gli attentati e gli omicidi che colpirono politici e dirigenti non ottennero mai un vasto consenso popolare; in un Paese con un debole senso dello Stato, la contestazione di ogni autorità e tradizione finì per accentuare le spontanee tendenze anarcoidi degli italiani, mettendo a rischio un sistema istituzionale di per sé molto fragile. La politica e i partiti ne furono gravemente colpiti e persero la capacità di intraprendere la riforma dello Stato fino a rendere la società ingovernabile; all’autodeterminazione dell’individuo non si accompagnò l’acquisizione del correlativo principio di responsabilità. Così si è affermata una concezione della libertà disgiunta dai principi etici, che reclama sempre più diritti e respinge i doveri. Il nostro sistema democratico è stato sottoposto a prove durissime; lo Stato ha dovuto affrontare attentati potenzialmente letali da parte degli opposti estremismi di destra e di sinistra, i governi dovettero attuare una politica lassista per non perdere la fiducia dei cittadini, accumulando in tal modo un debito pubblico colossale che ancora condiziona negativamente la nostra economia. La Democrazia Cristiano salvò le istituzioni democratiche dal baratro, il Partito Comunista cercò di frenare gli estremisti e mise in campo la strategia del “compromesso storico”, quanto di più lontano dallo spirito del Sessantotto.
Aldo Moro fu l’unico statista di grande spessore culturale che cercò di spiegare le tare e l’evoluzione della situazione italiana, voleva convincere per poter avviare una stagione di riforme, la “terza fase”, ma il suo assassinio mise i partiti in una condizione di assedio e quella stagione non ebbe mai inizio. Era difficile placare gli animi quando i vertici della cultura italiana agitavano il “libretto rosso” di Mao e i protagonisti di quelle follie oggi fanno finta che non siano mai accadute.
Così dalle premesse riformiste la politica e la società italiane sono precipitate nella tragedia di “tangentopoli”, un’altra fatale illusione che la corruzione potesse essere combattuta con i processi invece che con le riforme e, dopo cinquant’anni di vera anche se difficile democrazia, l’Italia fu sospinta nel “berlusconismo”, cioè nelle braccia di quella destra conservatrice e populista che era prevalsa sino alla dittatura fascista e da cui ci eravamo liberati con l’impegno resistenziale.
Il caos di oggi è figlio di quegli sconcertanti avvenimenti di ieri.
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