Il lavoro sapiente degli imprenditori e degli amministratori varesini dei primi quarant’anni del secolo scorso aveva realizzato le nuove fondamenta o, se volete, le linee guida per lo sviluppo delle città e concretizzato una visione: “la città giardino”. Come la storia ha dimostrato, quei visionari non fallirono. Quell’azzardo seppe rispondere alle domande provenienti dalla società: la costruzione dei quartieri di edilizia popolare Belfiore e Vittoria, composti da villini più che decorosi e tutti perimetrati da un piccolo giardino, la realizzazione di stabili prestigiosi per l’accoglienza e lo svago sulla cima del colle Campigli ed al Campo dei Fiori, la costruzione di ville e villini, che gareggiavano fra loro per bellezza e innovazione, sulle colline a ridosso del centro cittadino.
Ancora più importante fu la rivoluzione attuata per la mobilità pubblica con la posa di un sistema di trasporti su rotaia a trazione elettrica che permise il raccordo pubblico al Sacro Monte, al Campo dei Fiori oltre che collegare agevolmente Varese con le valli ed i laghi della provincia e, con sbarco alle stazioni ferroviarie, con Milano. E ci fu anche la Prima Guerra Mondiale. Seguì il triste ventennio che pilotò, nel solco di una nuova italianità, ulteriori trasformazioni nella città. Eppure, limitando i giudizi all’azione di sviluppo urbanistico, ritroviamo la stessa volontà strategica espressa nel ventennio precedente, osserviamo l’attenzione riposta nel progetto di sviluppo della città. Sorsero le architetture simboliche del potere laico, spesso in palese competizione con altre, più antiche e radicate, rappresentanti la sovranità religiosa. Pensiamo ai campanili ed alle torri civiche, Piazza Monte Grappa, l’ex Palazzo del Littorio ed oggi Questura, l’Ospedale Neuropsichiatrico. Se nel primo ventennio del secolo scorso si realizzò un asse di interesse territoriale nord-sud, città e montagna, nel secondo ventennio si pensò all’asse città-lago, quasi un completamento del corredo ambientale e paesaggistico necessario al riconoscimento di Varese, Città Giardino. Purtroppo il grande viale che doveva accompagnare dai Giardini Estensi sino al lago s’interruppe alla Piazza (oggi) della Libertà realizzando l’odierno viale XXV Aprile.
Dopo il secondo conflitto mondiale le strategie di sviluppo urbano appaiono diverse, connotate da una corsa rapida al soddisfacimento, certamente legittimo, delle istanze sopìte per molti anni: la libertà, il lavoro, la casa. La riattivazione e l’incremento delle attività industriali e artigianali richiamarono anche a Varese, nel secondo dopoguerra, nuovi cittadini e nuove domande a cui dare risposte. Le risposte ci furono, certamente, ma forse mancò il tempo per le valutazioni sulla qualità degli interventi e sulla inevitabile rovina di una parte del patrimonio naturale. Negli ultimi decenni alcuni architetti tentarono di introdurre sul territorio delle staminalità capaci di “germinare” nuovi modelli di sviluppo architettonico ed urbanistico. Penso innanzitutto a Luigi Vermi che instancabilmente ha proposto interventi, sorprendentemente attuali, su varie parti della città tesi alla prevenzione ed al risanamento del dissesto urbano ed ancora le previsioni di connessione e saldatura con altri insediamenti esterni al Comune, quasi una previsione di “Area vasta”.
Molte altre proposte, spesso patrocinate dall’Amministrazione Pubblica, sono state dimenticate. Ingenti sono state le risorse culturali che si sono riversate sul nostro territorio negli ultimi vent’anni e non hanno avuto alcun riscontro: sono state ignorate e sprecate.
La mancanza di strategie e lo scoordinamento degli interventi sulla città non ferma il degrado. E’ necessario redigere un progetto, una visione generale di sanificazione della città. La sordità alle domande di rinnovamento che si levano verso il Palazzo deve essere curata, troppe porzioni di città sono ammalorate e contagiose ed attendono risposte.
Ma per rispondere è necessario ascoltare, saper percepire i suoni della città materiale, delle pietre, dei mattoni, degli alberi e le voci degli abitanti. E’ necessario cogliere il rumore del tessuto che si logora e si spezza, il silenzio dell’abbandono, il crepitio dei vetri rotti che segnala l’arrivo di nuovi abitanti, gente senza più voce, a cui le risposte non sono state date. E’ necessario ascoltare e registrare, ma è indispensabile rispondere con un progetto, una visione.
L’invito di Renzo Piano per le aree urbane degradate: “bisogna cucirle, bisogna fertilizzarle con strutture pubbliche, bisogna completare le ex aree industriali”; il tutto “senza espandersi ancora sul territorio, che è fragilissimo, anche dal punto di vista sismico e idrogeologico”. “Il nostro Paese ha bisogno di un’opera gigantesca di rammendo”.
Ritengo che un amministratore pubblico, un sindaco, debba esprimere la capacità di sapersi misurare con un orizzonte inedito ricongiungendo il filo scelleratamente interrotto di una tradizione portatrice di bellezza e di progresso con un linguaggio, al tempo stesso puntuale e popolare, che renderà comprensibili e accettabili le sue proposte.
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