L’umiltà è al tempo stesso un’impronta del carattere, una passione, una virtù e uno stile di vita. Disposizione originaria dell’animo, essa si acquisisce e struttura nell’esperienza di ogni giorno. Come ogni virtù, dipende dal possesso di altre inclinazioni e di altre virtù. Non può essere insegnata da altri, può però essere appresa e convenientemente esercitata mediante una forma di autoeducazione riflessiva.
Il valore dell’umiltà si misura e apprezza intuitivamente comparandola con il cumulo di disvalori che caratterizza i suoi opposti, tutti in vario grado socialmente indesiderabili: la superbia, anzitutto, che ne è l’antitesi più specifica; e poi l’arroganza, la supponenza, la prepotenza, la tracotanza, la boria, l’impertinenza, l’invadenza, la presunzione, l’altezzosità, l’ambizione, la sete di potere, la cupidigia, la brama del comando, la vanità, l’egocentrismo e molto altro ancora. Nonostante questa evidenza intuitiva, oggi l’umiltà è spesso misconosciuta: alcuni la sottovalutano per la sua desuetudine; altri non la sentono propria per le sue origini ebraico-cristiane; altri ancora, fraintendendola, la considerano una diminuzione di sé, un deficit di autostima, un atteggiamento che non pone nel debito risalto le nostre qualità, le nostre risorse, le nostre capacità e che risulta perciò avaro di gratificazioni; altri infine la trovano inadeguata perché sembra esigere da noi un passo indietro là dove la vita sociale, almeno nelle sue forme contemporanee, pretende dei passi in avanti, per non cadere nell’anonimato.
Proprio la comparazione con la superbia permette di illustrare alcuni caratteri fondamentali dell’umiltà. In Tommaso d’Aquino essa oppone alla superbia la magnanimità, la grandezza dell’animo rispetto alla presunzione di superiorità delle cose – gli onori, i successi, le realizzazioni, le capacità – di cui ci si crede degni. Procedendo su questa falsariga emergono altre comparazioni. Dalla superbia discendono gli altri vizi capitali e ogni peccato, mentre l’umiltà può essere considerata il principio di ogni virtù. Inversamente, come dalla superbia discende l’odio, così l’umiltà discende dall’amore, o quantomeno da una relazione di umana tenerezza verso gli altri e verso la vita.
Là dove la superbia esalta la potenza, la forza, la superiorità di un individuo che si sente l’Unico e il Solo, l’umiltà prende invece atto della fragilità comune ad ogni essere umano, e fissa il valore del singolo nel suo saper stare nel limite anche quando si sforza di espanderlo, fissandone il potenziamento nella capacità di cooperazione paritaria con gli altri. Dove la superbia consiste nel mettere in mostra se stessi e i propri meriti, l’umiltà non si ostenta, non si sbandiera. Se c’è, si vede; se la enunciamo e magari ci spingiamo a vantarne il possesso, si sente lontano un miglio il retrogusto della presunzione, della dissimulazione e dell’impostura.
L’eccellenza morale parla da sola, negli atti compiuti; l’umiltà, che è l’indizio più chiaro di tale eccellenza, può essere riconosciuta solo da comportamenti e modi di essere che la manifestano con continuità e coerenza. Mentre la superbia, con l’ostentazione che le è propria, comporta il celare i propri limiti persino ai propri occhi, l’umiltà è un atteggiamento di verità verso noi stessi. Infine, se la superbia corrisponde a una deformazione ipertrofica della coscienza di sé, l’umiltà fa della medesima coscienza un dato prezioso di realtà. Con ciò si può non essere umili senza necessariamente cadere nella superbia e nella volontà di primeggiare. Si può, ad esempio, essere orgogliosi di noi stessi quando gli altri manifestano di apprezzare le nostre qualità o se non desideriamo nasconderle quando ci è richiesto di valorizzare le nostre risorse e di non sottrarci a un compito che è alla nostra portata.
Per come fu concepita fin dai libri di Giobbe e dell’Ecclesiaste e poi dalle origini paoline del cristianesimo, la nozione di umiltà rimase estranea al mondo greco e romano. I vari significati del termine latino humilis‒ da humus, lo strato superiore e morbido del suolo ‒ indicavano solo connotazioni negative, non degne di apprezzamento: ciò che non può elevarsi troppo da terra; ciò che è privo di valore intrinseco al punto da essere inutile; chi è arrendevole o peggio sottomesso, meschino e vile; chi è dimesso e trascurato; chi è di bassa condizione sociale. Il mondo antico era incentrato soprattutto sull’idea della moderazione, della misura, del senso dei propri limiti e di altre attitudini concernenti la saggezza dei comportamenti. Secondo Aristotele, virtuoso è chi «ammette di possedere le qualità che gli appartengono e non se ne attribuisce né di più né di meno». Ma la nozione di misura, centrale in tutta l’etica antica, si apparenta all’umiltà solo come sua ricaduta, senza definirne il campo.
Il concetto emerse dalle sue remote matrici bibliche solo nei primi secoli del cristianesimo. L’umiltà fu intesa come la piena sottomissione dell’uomo alla volontà di Dio, da cui dipende la sua stessa esistenza, e come la dovuta remissione alla sua grazia, da cui dipende la sua salvezza. Davanti a Dio l’uomo deve farsi piccolo, essere docile e cooperativo con i suoi disegni, non pensarsi insostituibile, riconoscere la sua dipendenza, per non perdere se stesso nel consacrarsi esclusivamente a fini mondani. Il termine ritrovava l’antico riferimento alla terra anzitutto come richiamo alla mortalità di ogni essere vivente. L’uomo deve riconoscere la sua mancanza di autosufficienza. La stessa colpa dei progenitori, che fu di ribellione e di superbia nella volontà di accedere a una conoscenza che avrebbe reso l’uomo eguale a Dio, poteva essere riscattata non soltanto rispondendo all’appello di redenzione sottinteso al sacrificio di Cristo, consacrando la propria vita anzitutto a Dio, ma appunto con una condotta umile, colma di riconoscenza per i doni e i talenti ricevuti, a partire dalla vita stessa, e rivolta semmai a metterli nel giusto valore e a renderli fruttiferi nelle proprie scelte e nella ricerca del bene comune.
In Tommaso il timore di Dio e la memoria di quanto ciascun uomo ha ricevuto sono le due radici dell’umiltà e dei doni che essa, a propria volta, elargisce. Una volta commisurata all’infinità di Dio, l’umiltà diviene una virtù relazionale che migliora la pregevolezza dell’ordinamento sociale cui si appartiene: «Di quanto c’è in noi, quello che è bene viene da Dio, quello che è difetto viene da noi stessi; perciò ciascuno, mettendosi a confronto col prossimo quanto al bene che ha da Dio e quanto al male che ha da se stesso, deve avere un atteggiamento di umiltà nei confronti di tutti». Il riconoscimento della dipendenza da Dio ci aiuta a riconoscere la nostra dipendenza da persone, istituzioni e circostanze che non controlliamo ma con le quali interagiamo. L’interdipendenza implica la rinuncia a categorie come superiore o inferiore, il riconoscimento di una parità nella dignità dell’essere, che non implica per nulla un’uguaglianza di fatto. L’umiltà ci conduce a «preferire ciò che c’è di divino nel prossimo a ciò che è umano in noi». L’umiltà è una virtù duplice: eccita alla magnanimità e frena l’animo «affinché non tenda smodatamente a cose alte». Scrive l’Aquinate: «Questo freno viene dal conoscere ciò che è sproporzionato alle proprie forze; cosicché la cognizione dei propri difetti è per l’umiltà la regola direttiva e l’umiltà consiste nello stesso freno dell’appetito». In quanto freno dell’animo, l’umiltà è parte della temperanza, come lo è anche la modestia, che si volge in umiltà quando modera le spinte a primeggiare. In conclusione, «l’umiltà è la più grande delle virtù; però dopo le virtù teologali, dopo le virtù intellettuali che informano la stessa ragione ordinatrice e dopo la giustizia, che costituisce l’ordine universale, essendo l’umiltà un particolare ordinamento della ragione».
Nella mistica, l’umiltà viene condotta fino all’essenzialità estrema. Le condizioni della contemplazione di Dio sono la povertà, la spogliazione di sé, uno stato di esilio. Le medesime vie, nota Emmanuel Lévinas, conducono all’accoglienza dell’altro. A loro volta, l’apologetica e l’agiografia cristiane hanno sempre insistito sull’esemplarità dell’umiltà di Cristo, riferendosi a numerosi episodi del Vangelo, come la lavanda dei piedi. Nei suoi esercizi spirituali Ignazio di Loyola fa dell’umiltà un capitolo delle meditazioni sulla figura di Cristo. Solo davanti a Dio è lecito umiliarsi, non così davanti a un altro uomo, così come nessun uomo ha diritto a umiliare chicchessia. In ultimo, l’enciclica Laudato si’, mentre richiama i cristiani al valore tradizionale dell’umiltà, ne sposta in parte il senso là dove interpella altri interlocutori: i non credenti, invocando una sottomissione al rispetto della natura; il mondo del sapere scientifico e tecnologico, perché non sia autoreferenziale; gli operatori economici, cui è chiesto di subordinare la ricerca del profitto non solo a criteri prioritari di giustizia e di equa redistribuzione, ma altresì al rispetto delle risorse del pianeta e della compatibilità tra la vita dell’uomo e quella delle altre specie, animali e vegetali.
Nella cultura laica la riflessione sull’umiltà ha avuto viceversa pochissimo spazio: tale spazio sembra ridursi in presenza di forme di vita associata che si muovono in direzioni opposte. Come ha notato Salvatore Natoli, l’umiltà nella sua versione secolarizzata è stata apprezzata soprattutto in società sensibili all’uguaglianza. L’umiltà in questo caso è stata contrapposta alla superbia del possedere oltre il necessario, per divenire un complemento di una vita sobria, votata all’essenzialità. Ma fino a che punto la società occidentale è ancora pronta a recepire alcune istanze di equità sociale? E fino a che punto è impreparata ad accogliere valori nuovi come uno stile di vita sottratto alle logiche del successo ad ogni costo, dell’arricchimento privato e del consumo di beni?
Forse proprio l’enciclica papale offre un terreno di incontro tra la relativa vitalità di cui ancora gode la «passione dell’umiltà» di stampo cristiano e il germoglio dell’umiltà secolarizzata, sino ad ora cresciuto in un terreno poco irrorato e poco fertile. Scrive Natoli: «Solo nella gratuità dell’amore, nella sovrabbondanza del dono possiamo trovare riposo. Perché nel nostro reciproco relazionarci dimentichiamo costantemente la nostra fragilità? Se solo ci pensassimo, pur non essendo cristiani, avremmo una qualche buona ragione per essere umili, per essere di sostegno gli uni agli altri, in una comune pietà. Tutti piccoli, tutti toccati dall’amore. Non dall’amore passione, ma da quello di dilezione». Forse qui è la via. Il guaio è che virtù e passioni non sono sottoposte a processi chimici che si possano precostituire in laboratorio. Di umiltà c’è bisogno. Ma non ogni bisogno trova risposte a tempo debito, e i più si inabissano senza esito.
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