Che cosa accade in una famiglia quando un figlio commette un grave errore? Quando una macroscopica stupidaggine mette a rischio la stessa vita di chi la compie e gli equilibri mentali e psichici di chi gli è accanto?
Alberto Reggiori, chirurgo a Cittiglio, sposato con Patrizia, già autore di due libri sui suoi dieci anni di esperienza sanitaria in Africa, ne ha scritto un terzo dal titolo “Fatti vivo” (edizioni Marietti). Vi ripercorre la drammatica esperienza di uno dei loro sette figli, Giulio, che per evitare un posto di blocco dei carabinieri (guidava da solo con il foglio rosa ) si schiantò – era il maggio 2007 – contro un pilone di cemento a Nerviano. Resterà tra la vita e la morte per molti giorni all’ospedale di Legnano. Ricoverato per cinquantuno giorni, passerà altri sette mesi in un centro di riabilitazione nel Parmense. A tutt’oggi prosegue con determinazione e fiducia un percorso di recupero, per altro con ottimi risultati.
Diciamo subito che non è un libro per “anime belle”. Destinato a scontentare due categorie di lettori: quelli per cui ogni disgrazia che capita è una conferma che la vita è una fregatura, andando ad alimentare così il nichilismo dominante. E quelli per cui una fede affermata aprioristicamente ti metterebbe al riparo dalle sciagure, destinandoti automaticamente a una vita da “Mulino Bianco”.
Alberto Reggiori ripercorre invece una storia drammatica, forte anche nella sua esperienza medica, senza sconti né sentimentalisti. A rischio di sconfinare nel “pulp”: “La soccorritrice aveva scucchiaiato fuori dalla tua bocca una brodaglia di coaguli, vomito e denti…” (pag. 27 ); non teme di mettere in forse le categorie di una fede data per scontata: “Siamo soli, soli davanti al nostro destino. Anzi davanti a un destino che non sembra certo il nostro, che improvvisamente ci si è rivoltato contro. Soli. E il Giulio può morire senza che noi possiamo fare nulla…” (pag. 18). Ma anche di mettere in chiaro che: “A posteriori forse era necessario passare attraverso questa misteriosa e potente purificazione” ( pag.103 ).
Più volte, leggendo il libro, scritto per altro molto bene, mi sono tornate alla mente quelle parole di Charles Peguy sui padri di famiglia: “Oggi c’è un solo avventuriero al mondo, e ciò lo si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono nulla, non sono niente al suo confronto. Gli uomini, i fatti; l’accadere: tutto è contro chi osa fondare una famiglia…”. E poco dopo: “I padri di famiglia soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un figlio malato non sa cosa sia la malattia”.
E più volte, sempre leggendo il libro, mi sono domandato: perché scriverlo? Per Giulio affinché sappia? Il ragazzo è ben conscio dell’errore fatto e delle sue conseguenze. Per Alberto? Ciò che ha vissuto con la moglie Patrizia ha molto più spessore di un libro. Per gli altri figli? Ne sapranno più o meno come loro… Il valore di “Fatti vivo” sta allora, secondo me, nel proporre una testimonianza a chi è in una situazione analoga: “Per quella umanità che soffre, dispera e spera: per una vita che vista da qui è un gran tritacarne apparentemente senza spiegazione, una sorte distribuita casualmente come i numeri della tombola. Qualcuno dimesso, qualcuno morto,qualcuno paralizzato” (pag.46).
È quindi l’offerta di un percorso che individuo in tre punti. Primo: quando la realtà bussa in quel modo e di solito senza avvisare, sei solo. Può accadere in un ventre di vacca come gli esercizi spirituali a Rimini (città dove Patrizia e Alberto alle tre e mezzo di notte vengono raggiunti dalla prima telefonata dei carabinieri), circondati dalla moltitudine degli amici più cari.
Ma sei solo e la realtà, apparentemente, si fa subito estranea e nemica: “Piangiamo in mezzo a quello squallido parcheggio, tra l’indifferenza degli alti padiglioni e dei tigli dell’ingresso, del sole splendente e dei sacchi gialli della spazzatura, della felicità delle rondini” ( pag 18).
Secondo: il dolore di questa condizione, anziché essere pietra tombale dell’esistenza, diventa il motore di una domanda: “Se abbiamo a chiesto a Dio di far incontrare con insistenza la verità a nostro figlio Giulio quando stava bene, non è possibile che la sua risposta sia la distruzione. Non mi arrendo! Sono sicuro che Dio, il Dio della vita, porterà a compimento ciò che promette” ( pag 59). “C’è qualcuno che conosce esattamente il numero dei capelli del tuo capo” (pag 54). E, riportando una frase rivolta ai fratelli di Giulio da un sacerdote caro ai tanti varesini, Don Fabio Baroncini: “Non avete diritto di essere tristi. Guardate i vostri genitori e imparate da loro: sono certi che il bene di vostro fratello passi attraverso questo doloroso momento… Se diciamo di sì questa sofferenza si muterà misteriosamente in gioia” ( pag. 67).
Terzo passo: condizione perché questo grido/domanda non decada è una compagnia di amici. Sia quella dei compagni di avventura in ospedale (pag 88) sia quella storica della compagnia della Chiesa che si traduce magari in decine di pellegrinaggi al Sacro Monte (pag.50): “Vi sono degli amici che vengono da Varese per spendere un paio d’ore con noi impiegandone sei di strada. Qualcuno realmente ci ama” ( pag. 95).
Sono tre condizioni che trasformano l’acqua in vino. Le lance in falci. Il dolore in speranza. Secondo i tempi di una lotta quotidiana. Ho provato a immaginare di che pasta potessero essere fatte le ore di giorni in ospedale in attesa di un cenno di miglioramento del figlio, con la pesantezza e la lentezza delle gocce di una flebo in una ipotetica clessidra; noi che ci inquietiamo subito se il negozio non ci ripara il computer o il meccanico l’auto.
Per questo preferisco credere che la biblica lotta che Giacobbe ingaggia con l’angelo (e che l’autore trasla su Giulio nel capitolo finale del libro) sia in realtà più la lotta che Alberto e Patrizia hanno intrapreso per portare a termine tutto il percorso cominciato quel 6 maggio 2007. Dallo sgomento per una possibile morte, alla scoperta di un figlio che pensavano perso (in molti sensi), ritrovato. Un percorso al termine del quale troviamo un Giulio più vero di prima dell’incidente (“Sei contento” pag.117), una famiglia più consapevole e unita, un pezzo di mondo migliore di cui persino un giornalista cinico e distratto come me può partecipare.
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