Anche i colossi talvolta hanno i piedi di argilla. Lo ha dimostrato la grande casa automobilistica tedesca Volkswagen che aveva trovato il modo di aggirare per anni i controlli anti inquinamento attraverso un programma elettronico che modificava le emissioni quando avvenivano i test. Una vicenda che rischia concretamente di essere qualcosa di più di un incidente di percorso e di diventare un ingombrante sasso negli ingranaggi della affaticata economia europea. La truffa ha infatti già portato a pesanti contraccolpi a tutti i livelli: le vendite si sono fermate; in Borsa il titolo è pesantemente crollato trascinando al ribasso tutti i listini; la reputazione della società e, di riflesso, di tutta l’industria germanica è drasticamente scesa. I rischi per l’occupazione appaiono più giustificati non solo per i seicentomila dipendenti diretti, ma anche per subfornitori, concessionari, meccanici che lavorano per la società e che anche in provincia di Varese hanno una presenza significativa.
È difficile prevedere le conseguenze a medio termine di quanto si è scoperto la scorsa settimana. Volkswagen è una società troppo grande per fallire, con una forte componente pubblica nel capitale, con una tradizione industriale di eccellenza. Uscire da questa crisi avrà comunque un costo enorme, non solo per le multe (si è parlato di 18 miliardi di dollari) prevedibili negli Stati Uniti, ma anche e forse soprattutto per riportare in officina milioni di vetture in circolazione oltre alla revisione di quelle già costruite e non ancora consegnate. Con un grande punto interrogativo: VW sarà in grado di garantire prestazioni analoghe alle precedenti anche senza il programma elettronico incriminato? E quali effetti si avranno a breve termine sulle scelte di chi deve acquistare una nuova automobile?
Se il futuro è denso di incognite possiamo comunque già fin d’ora trarre qualche lezione da questa vicenda. La prima e più importante è che la furbizia e l’irresponsabilità possono far vincere una battaglia, ma difficilmente aiutano a vincere una guerra.
La storia anche recente è ricca di episodi, in particolare nel mondo finanziario, in cui giocare con le carte false ha magari fatto ottenere ottimi risultati a breve termine sfociati tuttavia anche in pesanti fallimenti. Si è detto, non senza ragione, che il caso Volkswagen è per il sistema industriale quello che è stato il fallimento di Lehman Brothers sul fronte finanziario, un fallimento che ha dato inizio alla più grave crisi globale del dopoguerra. Ma prima avevamo già visto i casi del fondo LTCM, chiuso nel 1994 nonostante che i suoi modelli matematici fossero elaborati da premi Nobel per l’economia, della Enron, la multinazionale fallita nel 2001, del fondo di Bernard Madoff, una delle più sofisticate e imponenti truffe finanziarie del secolo.
E possiamo aggiungere le manipolazioni (accertate e condannate) che grandi banche hanno realizzato sulla fissazione dei tassi di interesse e delle quotazioni dell’oro.
Il diavoletto della furbizia si insinua talvolta nel mondo degli affari dove spesso il confronto aperto e trasparente sul mercato si trasforma nella ricerca del massimo profitto anche violando non solo le regole, ma anche le norme di comportamento basate sull’etica, sulla correttezza, sulla fiducia. Come ha affermato papa Francesco nella conclusione della sua Enciclica “Laudato si’ ”: “Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco”.
Correttezza e responsabilità dovrebbero riguardare tutte le componenti della dimensione sociale ed economica. Spesso la comunicazione, per esempio, porta ad enfatizzare i lati negativi, gli aspetti più clamorosi, i particolari più intriganti. E i mercati finanziari dimostrano tutta la loro fragilità inseguendo voci e indiscrezioni. Una realtà basata sulla fiducia e sulla trasparenza richiederebbe invece di porre su basi più solide quel rapporto indispensabile, se costruttivo, tra l’economia reale, la finanza e le esigenze di equità sociale.
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