Senza pregiudizio per l’urgenza di dare risposte umane ed efficaci all’attuale crisi dei migranti, resta il fatto che a lungo termine la soluzione del problema non è comunque quella di tenere costantemente aperte le frontiere dell’Unione Europea a chiunque provenendo dall’emisfero Sud desideri entrarvi. Purtroppo invece sembra che né i governi né i promotori a qualsiasi titolo della solidarietà con i migranti diano a questo elemento-chiave della questione tutto il peso che merita. È chiaro che per i modi in cui avvengono, e per le conseguenze che hanno in tutti i Paesi interessati (di origine, di transito e di destinazione), queste migrazioni sono destabilizzanti e tendenzialmente catastrofiche. Perciò è da irresponsabili non accompagnare il pronto soccorso e l’accoglienza di chi è già arrivato, ovvero di chi è ormai vicino ai confini dell’Unione, con una politica volta in modo esplicito, visibile e intransigente da un lato a far venir meno le cause dell’esodo e dall’altro a dissuadere in tutta la misura del possibile chi sta per mettersi in cammino.
Che a tal fine occorra porre mano a politiche complesse e di lungo periodo è semplicemente ovvio. Non per questo tuttavia ci si può permettere di rinunciarvi. Al di là di ogni più immediata emergenza c’è in proposito un’emergenza strutturale, ossia l’enorme squilibrio in quanto a tenore di vita e perciò in quanto a qualità dei servizi tra Paesi che gli attuali sistemi di telecomunicazione hanno reso prossimi e intercomunicanti. Tanto per fare un esempio i redditi pro capite della Germania e dell’Italia sono pari rispettivamente a quasi 27 volte e a oltre 20 volte quello della Nigeria, la più grande economia dell’Africa sub-sahariana e una delle meno povere. Nel caso dell’Afghanistan siamo invece, per fare un altro esempio, addirittura a 66 e rispettivamente e 44 volte. E anche un Paese a due passi da noi e che a prima vista non sembra poverissimo, come la Tunisia, ha un reddito pro capite che è un decimo di quello tedesco e un settimo di quello italiano. Inoltre, anche a prescindere da possibili inefficienze e da possibile corruzione, i Paesi che non raggiungono gli 8-10 mila dollari di reddito pro capite annuo, ovvero almeno il triplo di quello della Tunisia, non sono comunque in grado di garantire a tutti un’assistenza medica e servizi sociali gratuiti o semigratuiti come quelli di cui si dispone normalmente anche nei più poveri fra gli Stati membri dell’Unione Europea. Squilibri simili si registravano anche nel passato, seppure non in misura così elevata. Un tempo però da un lato non se aveva facilmente l’ampia notizia che se ne ha adesso fino nei più remoti angoli della terra; e dall’altro la rete dei sistemi di trasporto non era così fitta, così economica e così accessibile come oggi è. Mi riferisco alla rete dei sistemi di trasporto nel più ampio senso della parola, che giunge fino a comprendere la facilità di acquistare un gommone con motore fuoribordo in un centro costiero della Turchia e da lì fare rotta verso una vicina isola greca visibile ad occhio nudo.
Paesi del genere sono poi spesso preda di crisi e di guerre, ma ciò semplicemente si aggiunge a un divario di risorse e perciò di qualità della vita che già di per sé costituisce una potente spinta all’esodo di chi se lo può permettere, ossia coloro che sono relativamente più agiati e più istruiti. Se la situazione è stabile la maggior parte di essi non è comunque disposta a emigrare irregolarmente. Se però la situazione precipita in una grave crisi o in una guerra allora per così dire salta il tappo: chi può sceglie di emigrare anche a rischio della vita sua e dei familiari che porta con sé.
Chi guardi con attenzione le immagini dei migranti che oggi passano sui teleschermi, se conosce almeno un po’ i Paesi da cui provengono, si accorge subito che si tratta relativamente di “ceti medi”. Lo si vede dagli abiti, dalla frequente capacità di parlare un po’ l’inglese, dal comportamento. I più miseri non si muovono nemmeno sotto le bombe perché non ne hanno i mezzi e non sanno dove e come fuggire.
Queste crisi e queste guerre sono poi sempre indotte e alimentate dall’esterno: come la moderna sanità, anche la guerra moderna è qualcosa che un Paese con un reddito pro capite al di sotto degli 8-10 mila dollari all’anno non è in grado di pagarsi da solo. Non meno delle apparecchiature medicali anche le armi di oggi sono macchine sofisticate e costose che da solo un Paese poco sviluppato non può né produrre, né comprare, né mantenere in efficienza.
Da tutto questo deriva che il comando a distanza che provoca questi esodi è nelle mani delle grandi potenze e dell’Occidente in genere. Ciò non significa beninteso che si possano in un battibaleno trasformare le spade in falci. Non solo una tale trasformazione qui da noi è complessa da un punto di vista economico-sociale, ma ci sono gruppi di interesse schierati con forza a favore delle armi e della guerra non solo nell’emisfero Nord, nel mondo sviluppato, ma anche nell’emisfero Sud. Nei Paesi meno sviluppati e più instabili non c’è solo chi muore di sottosviluppo e di instabilità, ma c’è anche chi ne vive, e ne vive bene o comunque meglio. Né si deve pensare con schematismo di matrice marxista che dalla parte della guerra ci siano i ricchi e da quella della pace ci siano i poveri. Ci sono ricchi e poveri sia da una parte che dall’altra. E ciò rende le cose ancora più complicate.
Il processo di transizione da uno stato di cose all’altro non sarà dunque né rapido né semplice. Tanto più quindi è urgente che cominci subito e che dia qualche risultato al più presto, prima che l’immigrazione irregolare di massa dall’emisfero Sud verso l’Unione Europea diventi insostenibile.
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