Più che mettere chiarezza su un tema da sempre rilevante, il recente incontro al “De Filippi” dedicato alle autonomie ha suscitato antiche perplessità, e qualche ombra. Anzitutto di carattere politico o, in forma ristretta, partitico. Anche perché l’incontro, che era stato indetto per presentare un saggio dell’ex assessore regionale di Forza Italia Mario Mantovani – il volumetto s’intitola “Lombardia migliore? Sì Lombardia autonoma” –, ha visto la presenza in un certo senso ingombrante, più che autorevole, del presidente della giunta regionale lombarda Roberto Maroni (il termine governatore, ripreso spesso dalla stampa forse in assonanza con l’incarico negli Usa, non ha da noi nessuna valenza legittima).
È noto che il tema delle autonomie, più o meno accentuate, attiene da tempo alla Lega, il partito di cui fa parte Maroni. Ma passata l’epoca dei distacchi dal governo nazionale e centrale, e soprattutto dal territorio, negli ultimi mesi (o anni) il dibattito s’è incentrato in particolar modo solo sull’autonomia finanziaria (argomento già delineato nell’art. 119 della Costituzione, più volte modificato, che però sembra ancora oggetto di nuovi interventi). Nella fattispecie Roberto Maroni aveva basato il proprio programma elettorale sul mantenimento in loco (in Lombardia, dunque) almeno del 75% delle tasse corrisposte dal cittadino. Dopodiché, una volta eletto (con l’aiuto determinante di Forza Italia e delle forze moderate di centrodestra, compresi ex formigoniani), l’argomento è stato pressoché abbandonato. Se n’è tornati a parlare ufficialmente al “De Filippi”, anche a seguito della presentazione del libro di Mantovani, già assessore del Pirellone, ma non sempre in sintonia con l’ “amico” Bobo.
Autonomia a parte, sulla quale da sempre si registra una corsa da parte di altri partiti anche non “leghisti”, sia essa un’autonomia dura “alla catalana” e “alla scozzese” o prettamente economica, una delle cose tuttora non chiarite è l’entità esatta della percentuale del rientro di tasse da parte dello stato: durante la campagna elettorale, per esempio, a fronte del 75 chiesto da Maroni, s’era parlato di un ritorno presente di circa il 73%, quindi di pochissimo distante dal tetto indicato come imprescindibile. Adesso si dice di un ritorno “superiore al 60%”, e siamo ancora più o meno in zona.
L’autonomia, finanziaria e no, è un tema interessante e forse decisivo. Ma spesso la pratica s’è scontrata con la grammatica. La Lega Nord, che è già stata al governo, e con la gestione di ministeri importanti, non ha mai dimostrato agli effetti “amore” per il decentramento, soprattutto al proprio interno, tanto da rievocare i fasti del partito più centralista della nostra storia, il Pci (né in proposito s’è mai capito bene il significato di “centralismo democratico”). E come può un centralista (al governo…) mostrare interesse per l’autonomia?
Ma una delle cose tuttora oscure, in questo ambito, è la mancanza del sapere fare squadra, dell’essere uniti, specie nella bistrattata Europa di oggi. Un “distacco” della Lombardia (esistono Regioni virtuose, dalle quali prendere esempio, ma anche non virtuose, anzi pessime), in qualsiasi condizione esso avvenga, è una sorta di salto buio. Quanto può giovare tutto ciò all’Italia intera e all’Europa? Non si sa. Né si hanno per ora controprove convincenti.
Anche la proposta avanzata qualche tempo fa di un referendum (referendum soltanto consultivo, perché nel nostro ordinamento tale tipo di consultazione popolare ha ben precise definizioni e limitazioni), lascia un po’ il tempo che trova. Un referendum consultivo a livello nazionale? Sembra di no, ma sarebbe interessante. Soltanto in Lombardia? Potrebbe essere un referendum dal risultato scontato, inutile e retorico: come proporre a una classe di liceali se sia meglio trascorrere una serata con la vicina di casa di settant’anni o con Penelope Cruz. In definitiva, uno spreco di denaro.
L’equiparazione volenterosa e ipotetica della Lombardia alle cinque Regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna) desta altre perplessità. Anzitutto, storicamente, quelle cinque regioni cui i padri costituenti subito dopo la fine della seconda guerra mondiale vollero attribuire una più ampia autonomia, venivano da condizioni “estreme”: la Val d’Aosta era oggetto di interesse da parte della Francia gollista, il Trentino-Alto Adige minacciava un ritorno all’Austria (il “pacchetto alto-atesino” diede ancora problemi alla fine degli anni Settanta, e le bombe esplodevano a Bolzano), il Friuli-Venezia Giulia viveva in uno stato debole e ambiguo con la spada di Damocle titina sopra la testa; e anche in Sicilia, che alcuni volevano addirittura aggregare agli Usa come nuovo stato, alla pari del Texas e dell’Arizona, e in Sardegna soffiavano venti separatisti. Senza contare che almeno in tre regioni (ma potremmo inserire anche la poliglotta Sardegna) c’era e c’è una situazione linguistica del tutto particolare e che la Costituzione si sentì di tutelare con un suo articolo specifico.
Che poi certe regioni a statuto speciale abbiamo dato una pessima risposta alla loro autonomia è cosa del tutto diversa. D’altra parte giova ricordare che quando il parlamento, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si impegnò nell’avvio della realizzazione effettiva del regionalismo, così come stabilito, l’opposizione più forte si ebbe dalle forze di centrodestra, anche da quelle moderate da cui poi, in linea discendente, purtroppo, è nata Forza Italia.
Non ci sembra che quegli oppositori non avessero anche qualche buon motivo per contrastare il progetto. Ma il tempo, spesso, travolge e stravolge le cose. E poi, come si vede, si può anche cambiare idea.
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