Presi dai riti dionisiaci ferragostani, pochi italiani meditarono su di un fatto gravissimo che, il 13 agosto scorso, preoccupò invece coloro che per ragioni professionali sono stati inseriti per lunghi anni in una struttura gerarchica: il cargo “Jolly Grigio” investì, e mandò a fondo, un peschereccio (uccidendo due pescatori) perché il timoniere aveva sniffato cocaina. Anche chi non ha esperienza marinara, sa che un cargo è una nave trasporto che, per stazza e dimensioni, è una sorta di città galleggiante la quale, per quanto il mare sia vasto, può creare disastri incalcolabili anche soltanto per una manovra errata. Ebbene, il pilota di quella cittadella galleggiante lunga centoquarantatré metri, larga trentadue e dal peso di ventitremila tonnellate, era sotto l’accertato effetto di sostanze stupefacenti! Il fatto, già grave di per sé, apparve gravissimo perché il timoniere di una nave, mercantile o militare che sia, ha nella linea di comando sovraordinata l’Ufficiale di rotta e il Comandante: possibile che questi due non si fossero accorti delle condizioni fisiche del loro sottoposto? Possibile che non si fossero resi conto della zigzagante rotta seguita dall’obnubilato timoniere?
Questi interrogativi si sono ripresentati il 13 gennaio scorso, quando la nave da crociera Costa Concordia è naufragata sugli scogli affioranti davanti all’Isola del Giglio, provocando la morte di undici persone, tra passeggeri ed equipaggio, e una ventina di dispersi. Le macchine erano perfettamente funzionanti, il mare piatto come una tavola, la visibilità ottima, la strumentazione di rilevamento e navigazione attiva, le carte nautiche aggiornate e l’equipaggio al suo posto, eppure la nave è andata prima sulle “scole”, o secche, che si trovano a Sud dell’Isola del Giglio e, poi, per trarsi dagli impicci si è infilata tra scogli visibili anche a occhio nudo. Com’è potuto accadere? E qui il discorso si fa lungo e complesso perché alcune dinamiche concernenti il naufragio sono state così assurde da sembrare incredibili. L’ultima parola su questa incomprensibile tragedia del mare la dirà la magistratura, che ha disposto gli arresti domiciliari del Comandante della Costa Concordia, anche se in base agli elementi in nostro possesso, nulla vieta di fare alcune considerazioni.
Una nave della stazza di centoquattordicimila tonnellate doveva transitare a non meno di quattro miglia dall’Isola del Giglio mentre, quando si è capovolta, la “Costa Concordia” era a centocinquanta metri dalla riva, in un tratto di mare solitamente evitato anche dalle agili motovedette della Guardia di Finanza. Dopo l’impatto con gli scogli e la conseguente apertura di una falla lunga settanta metri nella chiglia, anche un velista della domenica avrebbe realizzato di dovere evacuare la nave prima che le tonnellate di acqua imbarcata la facessero affondare e invece, per oltre un’ora, il Comandante della Costa Concordia non ha preso nessuna decisione, non ha attivato nessun predisposto piano di abbandono rapido della nave, lasciando che i passeggeri si ammassassero disordinatamente sui ponti. Insomma, se non fosse stato per la decisione autonoma (tecnicamente si sono ammutinati) degli altri Ufficiali di far calare le scialuppe di salvataggio, sarebbe stata un’ecatombe. Peraltro, la maggior parte dell’equipaggio non riusciva a dare indicazioni ai passeggeri terrorizzati a causa della lingua, e qui entra in ballo la Compagnia di Navigazione che, evidentemente, recluta gli equipaggi senza accertarne i requisiti linguistici indispensabili per prestare servizio su una nave da crociera: se questo stesso criterio selettivo è stato adoperato anche per la scelta del Comandante in questione, si spiega da solo ciò che è successo.
Fin qui, però, staremmo nel campo della sciagurata incompetenza, dello scarsissimo senso delle proprie responsabilità e dei nervi di pastafrolla, se non fosse per quello che è successo mentre si tentava di mettere in salvo i 4.229 passeggeri: il Comandante è scappato, ha abbandonato la nave prima che tutti i passeggeri fossero posti in salvo, nonostante l’adirato (signor) Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno gli ingiungesse di ritornare a bordo e assolvere i propri doveri!
Nessuno si aspettava che – come facevano alcuni comandanti militari dei tempi passati – egli si facesse inghiottire dai flutti assieme alla sua nave, ma che dirigesse fino alla fine le operazioni di salvataggio sì. Purtroppo, la pavidità del Comandante della “Costa Concordia” ha resuscitato nell’opinione pubblica, nazionale e internazionale, alcuni fantasmi del nostro passato, fantasmi che, di volta in volta, hanno avuto i nomi di Ramorino, Persano e Vittorio Emanuele III, personaggi che agli ineludibili doveri derivanti dalle proprie responsabilità, scelsero la via della fuga. Eppure, morire per compiere il proprio dovere non è la cosa più brutta che possa capitare a un Comandante appena degno di quest’appellativo, peggio è vivere col rimorso di non aver fatto tutto il possibile per salvare le vite delle persone che ci sono state affidate. Per questa ragione il 16 gennaio del 2012 sarà ricordato come un giorno ignominioso per la marina mercantile italiana.
A questo punto, dobbiamo ritornare all’interrogativo iniziale: era lucido il nostro incredibile protagonista? Stando alle testimonianze di alcuni passeggeri e di membri dell’equipaggio, sembrerebbe proprio di no, anche se in proposito la magistratura avrà già disposto per un drug test e per il rilevamento del tasso alcolico ma, quant’anche questi test dessero esito negativo, resta il problema della selezione degli equipaggi della flotta mercantile, selezione che, a quanto pare, fa più acqua della nave adagiata sul fianco davanti all’Isola del Giglio. Quello della selezione della classe dirigente, purtroppo, è il padre di tutti i problemi del nostro Paese e un esempio chiarificante di come questa è scelta lo fornì Giulio Andreotti nel 1978: nominò presidente della Consob, la commissione che vigila sulla Borsa, un suo fedelissimo perché si trattava di un “industriale partecipante in società di esercizio cinematografico”. In realtà, questi gestiva a Roma il teatro Brancaccio all’epoca famoso soltanto per gli spogliarelli. Ecco, sarebbe interessante conoscere il background in base al quale la Compagnia di Navigazione interessata ha selezionato il Comandante di una città galleggiante e, soprattutto, quale Accademia Navale l’ha patentato Ufficiale della Marina Mercantile; sarebbe interessante conoscere le risultanze dei test psicologici sulla sua tenuta emotiva; sarebbe interessante, infine, sapere quante volte all’anno egli è stato sottoposto ad accertamenti sanitari per testarne l’idoneità psico-fisica, come si fa periodicamente con piloti d’aereo e militari in generale. Queste cose, probabilmente, non le sapremo mai e, forse, è meglio così perché ne verrebbe fuori lo spaccato di una classe dirigente quantomeno superficiale. Al (signor) Comandante della Capitaneria di Livorno, invece, va il pensiero riconoscente di tutti quegli italiani – oscuri eroi del quotidiano – che si alzano al mattino con l’obiettivo di compiere semplicemente il proprio dovere, costi quel che costi. Assieme alle vittime del naufragio, li affidiamo “A Te, o grande Eterno Iddio, Signore del cielo e dell’abisso cui obbediscono i venti e le onde …”. Così come recita la preghiera dei marinai, quelli veri.
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