«Il privato», si diceva una volta, «è politico». Il tempo ha fatto slittare il senso di quell’espressione. Non è più il privato ad avanzare richieste alla politica; è il privato ad assumere una diretta valenza politica. Ciò vale anche per il pudore. Platone nel Protagora associò pudore e giustizia: l’uno instaura vincoli costituenti unità di amicizia, l’altra l’ordinamento della città; l’uno non è senza l’altra. Né la polis né il pudore possono sopravvivere all’inimicizia. Nelle Leggi il rapporto da complementare diviene parentale: «la vergine Giustizia è figlia del pudore». In Vico il pudore, che Socrate avrebbe definito il «colore della virtù», è, insieme alla religione, il vincolo che conserva unite le nazioni, mentre l’empietà e l’audacia le distruggono. Diametralmente opposto è il giudizio di Martha Nussbaum: il pudore è irragionevole, perché contiene aspirazioni inesaudibili come la purezza, l’immortalità e l’assenza di animalità, e non offre alcun contributo alla vita pubblica.
Le critiche al pudore non erano nuove: già sotto il regno di Luigi XIV madame d’Épinay, scrittrice libertina, lo definì «quella bella virtù che si attacca al mattino, con gli spilli». A partire dagli anni ‘60 il pudore fu ritenuto un orpello del passato, uno strumento patogeno di coercizione, una costrizione psicologica che inibiva – soprattutto alle donne – la legittimità del desiderio e ostacolava l’«autenticità». In cambio ebbe larga fortuna il «falso pudore», seduttivo, civettuolo, galante, garbato, allusivo e vagamente malizioso. Eppure era già accaduto qualcosa che avrebbe potuto rivelare il pregio intrinseco del pudore. Per demolire l’umanità degli ebrei rinchiusi nei lager nazisti, in primis davanti ai loro stessi occhi, il pudore fu oggetto di una radicale aggressione: l’intromissione nella vita dei detenuti e il dominio instaurato sui loro corpi offrirono all’azione di sterminio una violenza psichica e simbolica ancor più forte di quella fisica.
Più ancora delle riflessioni (di per sé non nuove) proposte dalla filosofia, dall’antropologia, dalla sociologia e dalla psicologia, le comuni esperienze di vita hanno ribaltato le prospettive. Assistiamo così alla riabilitazione del pudore, anche indiretta (come nelle norme giuridiche sulla privacy). Il mutamento dei giudizi è però più lento di quello dei comportamenti diffusi. L’imperativo del piacere, l’esibizione dei corpi, lo sdoganamento dell’indecenza sono ancora pratiche comuni.
Là dove tutto può essere mostrato, visto, saputo e detto, qualunque intrusione è tacitamente autorizzata. Molti format televisivi lucrano sull’istigazione all’esibizionismo e al voyerismo e sugli «sdoganamenti» che ne conseguono. Non solo non ci proteggiamo più dalla vista degli altri; nemmeno proteggiamo più gli altri dalla nostra vista. La risoluzione dell’esistenza nella sfera dell’esteriorità e dell’esternazione ha prosciugato l’interiorità. Abbiamo smarrito le qualità interiori che accompagnano il pudore: il riserbo, il ritegno, la modestia, la cautela, il rispetto. Chi dovrebbe dare il buon esempio, come i politici, è spesso il più spudorato. Anche i social networks sono, per gran parte dei loro utenti, uno spazio di spudoratezza. Qualcosa di analogo si riscontra nelle gesta degli islamisti radicali; e ciò è tanto più paradossale perché il ricorso all’oscenità e alla trasgressione di ogni codice umano viene giustificato come arma per combattere l’oscenità e la trasgressività del nemico.
Nello stesso tempo l’estendersi delle dimensioni della vita sociale ha ridotto le relazioni faccia a faccia a favore di un generale anonimato che ci fa sentire disimpegnati rispetto agli altri. I vantaggi che il mutamento dimensionale ha arrecato in termini di libertà sono in parte depotenziati dalla regressione del pudore e dal declino della «buona educazione». Di fatto la svalutazione del pudore ha prodotto un regresso nella civilizzazione e nella libertà individuale, che non consiste affatto nel fare ciò che più ci pare, ma nell’agire con piena facoltà di scelta entro i limiti che proteggono la nostra intimità. Scrive Monique Selz: «La guerra aperta dichiarata al pudore in quanto valore ereditato dal puritanesimo borghese conduce alla sempre più problematica scomparsa dell’intimità di ognuno. La salvaguardia della vita privata è l’unica garanzia di una vita sociale armoniosa la cui realizzazione e conservazione sono compito di tutti». Il pudore media tra pubblico e privato; aiuta a conservare la convivenza perché spinge al rispetto delle regole comunitarie, e però consente di sottrarre qualcosa di sé, l’intimità, al controllo della comunità.
Ma in cosa consiste quel pudore che ora torna d’attualità? Seguiamo gli spunti che la storia del pensiero filosofico ci offre. Si tratta anzitutto, secondo Aristotele, di un’emozione che media inconsapevolmente tra la virtù e una paura indefinita e senza oggetto, e che ha un corrispettivo consapevole nella temperanza e nella prudenza. La lingua latina, con la comune costruzione nella sola terza persona singolare di licet, decet e pudet, ha instaurato, in scala, una connessione inscindibile tra liceità, decenza e pudore. Nel Seracide si legge che il pudico «trova grazia presso chiunque»: il pudore sembra qui uno stile, un modo di essere e di presentarsi.
Da sempre si associa il pudore al corpo, come protezione della o dalla sessualità, a seconda se si mostra o si vede ciò che conviene non mostrare e non vedere. E il corpo è coinciso anzitutto, secondo una remota tradizione patriarcale, con il corpo femminile, votato all’intimità della sfera familiare. Per Agostino «la natura umana si vergogna della concupiscenza carnale», paragonata a un «importuno non richiesto».
Proteggendoci dalla disobbedienza della carne, «il pudore nasconde per vergogna ciò che la concupiscenza muove con disobbedienza, in contrasto con la volontà punita per aver disubbidito». «L’animo prova vergogna della resistenza che gli oppone il corpo». Non veniamo privati del pudore, bensì del dominio sul nostro corpo piegato all’imperiosità del desiderio. Per Hegel l’uomo, una volta consapevole della sua superiore destinazione spirituale, vede nel suo corpo, con quel poco che serba di animalesco, un ostacolo alla manifestazione della sua interiorità; solo la testa e le mani sono lasciate in vista perché posseggono espressività spirituale.
Agostino fu il primo a cogliere l’endiadi di pudore e vergogna, il rapporto di opposizione e complementarità che li lega: l’uno previene quel che l’altra si rimprovera. Il pudore alimenta il senso della nostra dignità e lo erge a presidio dai rischi di circostanze che possano indurci alla vergogna. «La vergogna sancisce lo scacco della condotta pudica» [Habib].
Non va però trascurato come il pudore possa essere una componente essenziale della dinamica amorosa. Come notò Stendhal il pudore, benché figlio della civiltà, suscita l’amore – dovremmo dire, più precisamente, l’innamoramento – perché stimola l’immaginazione e dilata la percezione emotiva mitigando la tensione erotica con una forte carica sublimatoria. Il presidio del pudore non è dunque un muro invalicabile, è semmai una linea invisibile, come ogni confine. Imponendo un rallentamento del desiderio d’amore, il pudore contribuisce a riqualificarlo, a renderlo meno imperioso, meno effimero, meno volubile e, tutto sommato, più forte e «centellinato». Il pudore proietta il desiderio verso l’interezza della persona amata, ed eleva la sessualità a culmine dell’unione d’amore.
In una parola, il pudore fa bene all’amore.
(1- continua)
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